giovedì 30 dicembre 2010

IL PREZZO DELLA FIDUCIA

Dopo il terremoto in Parlamento,scosse di assestamento anche nel centrodestra campano. I peones chiedono poltrone, Caldoro vacilla


di Alessandro Pecoraro



Acque agitate nel golfo di Napoli. L’evoluzione degli eventi politici nazionali non risparmia la politica campana e in particolar modo il Popolo della libertà. I berluscones campani hanno perso una lunga serie di pezzi, soprattutto nelle province di Avellino e Caserta.Pasquale Viespoli, Italo Bocchino e Enzo Rivellini hanno guidato un vero e proprio esodo dal Pdl, basti pensare che i circoli casertani di Generazione Italia (il movimento interno a Futuro e libertà presieduto da Bocchino) hanno fatto il pienone raccogliendo tutti quei politici che nei mesi e negli anni passati erano stati vittima dello strapotere di Nicola Cosentino e dei suoi uomini.
Ma non è tutto, il Popolo della libertà nelle prossime settimane dovrà fare i conti con un problema ben più importante. La nascita del Polo della Nazione costringerà Nicola Cosentino a decidere quale strategia attuare in Campania relativamente alle alleanze e alla scelta del candidato per le prossime elezioni del Comune di Napoli.
La fiducia del 14 dicembre alla Camera dei Deputati è stata ottenuta anche con la promessa di una distribuzione di incarichi e poltrone, soprattutto a livello locale. In Campania la vittima sacrificale potrebbe essere proprio l’Udc, che pur trovandosi all’opposizione nazionale continua a essere un alleato prezioso e fedele del governo regionale, occupando una serie di poltrone che fanno gola ai tanti piccoli movimenti rappresentati in Parlamento da quei deputati che hanno consentito a Silvio Berlusconi di ottenere la fiducia. Pochi giorni fa il deputato Marco Pugliese, esponente campano di Forza Sud, movimento creato da Gianfranco Micciché ha chiesto con forza la rottura dell’alleanza campana con l’Udc.
Anche Francesco Pionati, segretario nazionale di Alleanza di centro, ha attaccato l’Udc chiedendo al Pdl un atto di coraggio con l’obiettivo di «costruire un centrodestra a prova di traditori».
Come se non bastasse, è spuntato anche il movimento Noi Sud, il cui deputato campano, Antonio Milo, dopo aver votato la fiducia, ha immediatamente chiesto un incontro agli onorevoli Cosentino e Mario Landolfi, al fine di ottenere un riequilibrio politico a livello regionale con l’ingresso in giunta degli esponenti del suo movimento. Le minacce di guerra nei confronti dell’Udc hanno avuto riscontro anche nelle parole di Nicola Cosentino che, alla convention di dicembre del Pdl, ha dichiarato di poter fare benissimo a meno di un’alleanza con l’Udc in Campania.
È diventato davvero complesso per Stefano Caldoro sciogliere il nodo che si è venuto a creare. Il governatore della Regione, pur essendo espressione diretta del Popolo della libertà, non ha mai amato Nicola Cosentino, soprattutto dopo le indagini della magistratura sul dossier a luci rosse.
Dopotutto Caldoro, se è stato scelto come candidato per la guida della Regione, deve ringraziare due politici che in Campania sono in rotta di collisione proprio con Cosentino: il ministro Mara Carfagna e il capogruppo del Fli Italo Bocchino ...continua

L'ONDA ANOMALA DEGLI STUDENTI

Marciano, occupano, si ribellano.Oppure restano indifferenti, come se la Riforma Gelmini non li riguardasse. Un viaggio nella pancia e negli umori degli atenei di Napoli e Caserta


di Assia Iorio e Anna Fusari



«Università pubblica, abbiamo toccato il fondo». È scritto sul cartellone di un ragazzo, Danilo Cicalese, in costume, cuffia e occhialini, arrampicato su un leone di piazza dei Martiri a Napoli. I ragazzi della Campania ci sono. La rivolta è in atto. Il caos è iniziato.
Questo è il problema: secondo il ministro della Pubblica Istruzione e la sua Riforma, l’autonomia delle Università dovrà essere coniugata con una forte responsabilità finanziaria, scientifica e didattica. Ciò comporterà la fine dei finanziamenti a pioggia, certo, ma soprattutto la privatizzazione di un ente che, stando alla Costituzione italiana, dovrebbe essere pubblico. Saranno quindi tagliati i fondi per gli studi e la ricerca e assorbiti i piccoli atenei… insomma, decisioni che valgono il futuro di una generazione!
Nella sfilata di rivendicazioni la “Federico II” e “l’Orientale” marciano in prima fila; nelle retrovie, un po’ esitante, procede la provinciale “Seconda università di Napoli”.
Della Sun aderiscono alla protesta soltanto i ricercatori, toccati in prima persona dalla Rriforma. Da giugno molti corsi, esami e sedute di laurea sono stati cancellati. E la situazione di disagio non accenna a calmarsi: i corsi continuano ad essere scoperti e c’è il rischio che esami e sedute di laurea siano rimandati a tempo indeterminato. Ma ciò che stupisce è l’immobilità di tanti ragazzi. Molti assistono agli scioperi dei loro insegnanti come semplici spettatori, senza rendersi conto davvero che è in gioco il loro futuro. «Il giorno dell’approvazione in Parlamento hanno appeso qualche striscione… niente di più - dice uno di loro -. Stanno manifestando per quella legge… Gelm... come si chiama? Sai dirmi di che si tratta?».
La disinformazione dei ragazzi è preoccupante. Eppure, senza la forza trainante degli studenti, qualsiasi movimento è destinato a spegnersi presto. Alla Facoltà di Medicina e Chirurgia, qualche studente sembra prendere l’iniziativa partecipando ad assemblee e cortei e collaborando con i ragazzi della “Federico II” e de “l’Orientale”. Epicentro della rivolta resta, allora, Napoli, in modo particolare la zona universitaria di corso Umberto e piazza del Gesù. Sono stati occupati Porta di Massa, sede della Facoltà di Lettere e filosofia della “Federico II” e Palazzo Giusso de “l’Orientale”.
«Riprendiamoci il nostro futuro», si legge su uno striscione posizionato sui cancelli della facoltà di Lettere.
Diversi e vani sono stati i tentativi da parte dei ragazzi del collettivo di Porta di Massa di occupare anche il Rettorato della “Federico II”. Si cerca di ottenere risultati più concreti attraverso manifestazioni e cortei. L’intricato reticolo di strade stracolme di monnezza, bagnate di pioggia incessante, accoglie i nuovi ospiti della malinconia napoletana. Al fianco di precari, ecologisti e semplice gente esausta, avanzano gli studenti. Si somma la rabbia, esplode la disperazione.
Qui si lotta, prima ancora che per il diritto agli studi e ad avere un’università pubblica e ben finanziata, per il diritto di respirare aria pulita, per vivere in una società più sicura. Questa è la rivolta degli studenti campani.
L’anomalia, rispetto ad altre città d’Italia, è che ogni iniziativa viene stroncata duramente dai caschi blu della polizia. Non si tratta più di semplici manifestazioni, ma di veri e propri scontri.
Il barile delle polveri è esploso il primo dicembre, quando i ragazzi in corteo, a piazza Plebiscito, hanno varcato le porte del teatro San Carlo con la speranza di trovare la solidarietà degli artisti. Il tentativo di un dialogo, cercato da entrambe le parti, è stato stroncato da una carica. E qualcuno ha pure rotto il braccio al primo violinista. «Ho pianto dentro di me per la crudeltà con cui quegli studenti venivano caricati… è stato uno spettacolo davvero infelice», afferma uno degli orchestrali presenti quel giorno ...continua

SOLO UN POVERO ARTISTA…

Peppe Barra, cantore e testimone della cultura europea, racconta il suo disagio nell’Italia di oggi: «Mi vergogno quando calunniano la gente di Terzigno»


di Valentina Sanseverino



Dall'esordio in teatro a soli tre anni all’ultimo spettacolo – in ordine di tempo – in cartellone a Caserta. Dalla “Nuova Compagnia di Canto Popolare” alla carriera da solista, dal cinema alla tv.
Peppe Barra, l’artista che ha esportato la grandezza della cultura napoletana in tutto il mondo, si racconta dalle pagine del nostro giornale. E ci tiene a mandare un messaggio preciso e chiaro a tutti: «Ascoltate la voce del popolo di Terzigno!».
Maestro, torniamo indietro con la memoria, a oltre sessant’anni fa. Come è iniziato tutto?
In famiglia si respirava aria di palcoscenico fin dalla mia nascita e anche prima (il padre, Giulio, era artista di varietà; la madre, Concetta, indimenticabile icona del teatro partenopeo, ndr). A tre anni la maestra Zietta Liù mi scelse per una piccola parte in una rappresentazione della fiaba di Pollicino. Da lì sono arrivate le scuole di recitazione e canto, le prime rappresentazioni, i primi ruoli importanti.
Lei ha interpretato tutte le maschere del teatro partenopeo, da quelle della Cantata dei Pastori a Pulcinella, ma non solo. Da Nerone a don Chisciotte, dalle commedie di Goldoni a quelle di Molière. C’è un personaggio che ha particolarmente amato?
Li ho amati tutti, con la stessa passione. Se dovessi proprio sceglierne uno sarebbe senza dubbio Mr. Peachum ne L’opera da tre soldi di Brecht (a fianco ad Elio delle Storie Tese, ndr). Sì Mr. Peachum è forse quello che più ho amato.
E tra gli uomini che non recitano, quelli della vita reale? Qual è stato l’incontro più importante della sua vita?
Ho conosciuto artisti e uomini eccezionali: Eduardo De Filippo, Vittorio Gassman, Fabrizio De André, Roberto Benigni. Ma Marcello Mastroianni è stato sicuramente l’uomo più sconvolgente che ho incontrato.
Ancora più della sua grandezza come attore, era la luminosità che sprigionava a renderlo speciale: ti lasciava a bocca aperta. Poi col tempo imparai a conoscere anche la sua infinita umiltà, la sua intelligenza brillante…
Era un uomo vero, generoso, umile, non per modo di dire: era pieno di luce.
E poi, naturalmente, il mio grande amico Nino Rota. Nino era il musicista più grande che abbia mai conosciuto, era un personaggio interessante, ma sopratutto un vero amico. E basta.
Lei è tra gli autori e attori teatrali più prolifici al mondo, eppure ha trovato sempre spazio per dedicarsi alla musica, senza disdegnare
anche qualche apparizione in tv.

L’amore per il teatro non dà tregua né tempo per dedicarsi ad altro. Anche quando sono andato in tv, la prima volta nel 1987, con Serata d’onore, un omaggio a De Filippo con lo stesso Eduardo, Gassman e, appunto, Mastroianni, è stato sopratutto per portarci le mie opere teatrali. Non amo molto la tv, ma aiuta tanti bravi giovani a venire fuori: come Valerio Mastandrea, un attore che apprezzo molto. La tv va bene per questo e poco altro. Diverso è il discorso per la musica: da quando ho iniziato con la “Nuova Compagnia di Canto Popolare” mi sono appassionato al modo in cui la musica si sposa con il teatro: con loro ho girato tutto il mondo cantando in napoletano e l’amore del pubblico ci ha accolto bene ovunque, anche se non tutti capivano la lingua. Poi c’è stato “Peppe & Barra”, il Premio Tenco, l’incontro con De André (che gli chiese di interpretare Bocca di Rosa in napoletano e la inserì nell’Lp Cani Randagi, ndr) e l’inizio della mia carriera da solista, che mi regala ancora tante belle soddisfazioni ...continua

venerdì 3 dicembre 2010

LA VIOLENZA INDICIBILE DEL CRIMINE COMUNE

Giancarlo De Cataldo, scrittore e magistrato, legge lo stato di salute delle nostre comunità attraverso i suoi delitti: «Dietro il crimine c’è sempre un deficit culturale, la mancanza inquietante di mezzi di emancipazione»


di Mario Tirino


La provincia tranquilla non è per niente tranquilla. Per scoprirlo basta leggere le cronache locali, che riportano con dovizia di particolari episodi di cronaca nera a decine: omicidi, delitti passionali, misteriosi crimini, indagini finite sull’immancabile binario morto. E quindi dolore, incredulità, sento di impotenza. Qualche volta rassegnazione. No, la provincia non dorme sonni tranquilli. Ma spesso non gode della morbosa ribalta che i media nazionali riservano a storie come quella di Cogne, Perugia, Avetrana. E delle sue inquietudini, dei suoi “mostri”, dunque, si discute a bassa voce solo nei bar di paese. Per parlarne finalmente a viso aperto, Fresco di Stampa ha scelto Giancarlo De Cataldo, talentuoso scrittore e severo magistrato che ha trattato migliaia di casi, dai delitti familiari alle complesse indagini sulle mafie: in questi giorni è di nuovo in libreria con l’epopea risorgimentale I traditori (Einaudi).
In una regione afflitta dalla macrocriminalità come la Campania, avvengono crimini comuni di un’efferatezza incredibile. C’è un legame tra la sottocultura camorrista e i delitti ordinari?
Paradossalmente, di fronte all’efferatezza di alcuni crimini comuni, capita di rimpiangere le grandi organizzazioni criminali. I crimini familiari sono pervasi da una violenza tremenda, prodotta da anni di tensioni sotterranee incomprensibili, laddove i crimini di mafia sono più agevoli da decifrare, guidati come sono da una logica di predominio economico. Dietro l’omicidio individuale c’è invece un percorso di sofferenza portato a compimento.
Quale caso, tra quelli che hanno coinvolto la criminalità campana, ha maggiormente attirato la sua attenzione?
Ne cito due. Mi ha colpito molto il racconto di un uomo che aveva ucciso per fare un favore ad un’altra persona, alla cui richiesta aveva risposto con un serafico «che problema c’è?». Un’altra vicenda concerne un omicidio commissionato a Napoli, ma commesso a Roma, da due killer. Due ragazzi intelligenti, che in seguito si sono pentiti, ma che allora andarono a commettere quest’omicidio senza una lira in tasca, avendo con sé solo qualche gettone telefonico per comunicare a chi di dovere l’avvenuto compimento della missione. Questo conferma che dietro il crimine c’è spesso un inquietante deficit culturale, la mancanza totale di mezzi di emancipazione.
Qualche sera fa, Mario Calabresi, direttore de “La Stampa”, ha affermato in tv che, sfogliando gli archivi del suo giornale, si è reso conto che il livello di ferocia nella società contemporanea non è superiore a quello dei decenni passati. È d’accordo con questa tesi?
Sia lodato Calabresi. Balzac ha fissato le leggi eterne del crimine: l’oro e la passione, da cui deriva ogni crimine, l’omicidio politico, quello terroristico e anche quello di matrice psichiatrica, che altro non è che una passione malata.
Se è così, quanto influisce effettivamente la presenza ossessiva dei media nelle nostre vite sulla percezione di sicurezza sociale?
Una ricerca dell’Osservatorio europeo sulla sicurezza ha messo in relazione statistiche sui delitti, lo spazio riservato ad essi dai media e la percezione sociale tra un campione di cittadini. Ne è emerso che la percezione segue la propaganda, non la realtà: l’insicurezza percepita cresce se la tv ne parla più a lungo, anche quando, in realtà, i delitti scemano.
Quanto conta la carenza di lavoro nell’alimentare l’aumento di omicidi e, in genere, di crimini, specie nelle province di Napoli e Caserta?
Si arriva al crimine per una somma di fattori. Ma quando muore un intero apparato industriale (come a Bagnoli e Ponticelli), con la cultura del lavoro e le interazioni sociali che lo caratterizzano, si assiste alla dismissione – per citare l’omonimo libro di Ermanno Rea – non di una fabbrica, ma della città stessa. E si lasciano spazi enormi per l’agire della criminalità organizzata...continua

RIFIUTI, L’ALTERNATIVA POSSIBILE

Ambientalisti e cittadini che presidiano Taverna del Re, la mega-discarica di Giugliano, chiedono di fermare gli sversamenti. E propongono la riconversione dei Cdr in impianti di riciclaggio


di Tonia Limatola


Incenerire o non incenerire? Questo è il dilemma per lo smaltimento di sei milioni di ecoballe (o meglio di rifiuti compressi in balle) accatastate in due anni a Taverna del Re, il sito di stoccaggio regionale, al confine tra Giugliano e Villa Literno, ufficialmente chiuso a dicembre 2008 e poi riaperto a fine ottobre per ospitare i rifiuti rimossi dalle strade di Napoli. L’area dovrebbe accogliere anche uno degli altri due inceneritori previsti dal piano del Governo.
Il quesito è senza dubbio difficile. Secondo alcuni esperti, impianti come quello di Acerra sarebbero inutili e antieconomici. Per molti altri, invece, rappresentano l’unica soluzione per risolvere definitivamente l’emergenza regionale dei rifiuti. E il dibattito tra i sì e i no, poi, si arricchisce anche di altre ipotesi. Un’alternativa valida potrebbe essere il trattamento meccanico biologico, che conta sulla riconversione degli ex Cdr; mentre c’è chi spinge anche per la produzione del biodiesel.
Intanto, secondo l’ordinanza del presidente della Provincia di Napoli, Luigi Cesaro, la piazzola E12 avrebbe dovuto accogliere i camion dell’Asia per trenta giorni, per un totale di 10mila tonnellate, ma il quantitativo è stato raggiunto in due settimane. Spazio temporale durante il quale i cittadini – che negli stessi giorni si ritrovavano coi rifiuti in strada e la notifica di bollette della Tarsu maggiorate del 12% – hanno ricompattato il comitato civico nato nel 2006. La protesta degli attivisti di Giugliano, Qualiano e Parete è stata pacifica, con cortei e fiaccolate, ma non sono mancati i momenti di tensione e gli scontri – anche feroci, con feriti tra manifestanti e forze dell’ordine – in occasione dei blocchi stradali. I camion non si sono fermati nemmeno davanti alla minaccia di darsi di nuovo fuoco della “pasionaria” Lucia De Cicco, né quando sono state urlate le parole di Monnezza, il brano scritto dai Marenia, diventato l’inno della protesta. Una volta richiuso il sito, il fronte ambientalista però non si disperde.
Ora si apre il dibattito sul futuro di Taverna del Re. Attraverso quali strategie passerà – sempre se arriverà – la bonifica? In pratica, ora ci si chiede come verranno smaltite le ecoballe. «Il problema serio è che il destino di questa terra viene da sempre contrattato dalla politica locale seguendo logiche clientelari e mai l’interesse collettivo», dice amareggiato il giovane segretario del Pd di Parete, Raffaele Vitale. Cosa succederà? Un gruppo di esponenti del Pdl di Giugliano, intanto, si è schierato pubblicamente con un manifesto a favore dell’inceneritore, al quale a inizio anno non si era detto contrario a un tavolo in Provincia nemmeno il sindaco Giovanni Pianese. Soluzione che fa storcere il naso agli ambientalisti, per i quali incenerire non è la soluzione ideale. Esperti hanno dimostrato, dati alla mano, che si può rendere efficace il ciclo dei rifiuti risparmiando milioni di euro e senza realizzare nuovi impianti, né altre discariche. Ne è convinta l’ingegnere Carla Poli, imprenditrice che ha raccontato la propria esperienza sul riciclo dei rifiuti a Vedelago nel corso di un incontro coi comitati. Secondo alcuni esperti basterebbe trasformare i sette ex Cdr campani (che sono tra i più moderni d’Europa, costati 270 milioni di euro) in impianti di trattamento meccanico biologico, macchine cioè in grado di effettuare la cosiddetta differenziata a valle, cioè di recuperare materiale da riciclare dai rifiuti indifferenziati. Secondo i loro calcoli sui costi e i tempi di realizzazione, per costruire due nuovi inceneritori e beneficiare degli incentivi Cip6 occorrerebbero quattro anni e cinque miliardi di euro...continua

IL PICCOLO GORBACIOF CASERTANO

L’antidivo Toni Servillo presenta il suo film allo storico Cineclub Vittoria e si schermisce: «Ma perché mi fotografate? Mica sono Alba Parietti?»


di Valentina Sanseverino


Reduce dai trionfi del Festival di Roma, acclamato come miglior attore italiano contemporaneo, cinque film all’attivo in una stessa stagione cinematografica e una tournée teatrale che sembra non voler finire mai.Toni Servillo è l’uomo d’oro del cinema italiano e il fiore all’occhiello di quella nuova rinascita culturale targata Caserta che, lontana da cliché musicali, blockbuster cinematografici e best seller letterari, sta monopolizzando la scena artistica nazionale.
Accanto a lui, più timidi ma trainati da un carisma coinvolgente, una miriade di abili casertani: dal giovane attore teatrale Francesco Paglino e dalla costumista Ortensia De Francesco (Gorbaciof) al collega Marco D’Amore fino allo sceneggiatore “Premio Solinas 2003”, Filippo Guarino (Una vita tranquilla). In prima fila c’è lui, il Re Mida del cinema italiano, l’attore che rende prezioso qualsiasi film sfiori, l’interprete conteso da festival e
produzioni di mezzo mondo. Eppure Toni Servillo, che la patina dorata da star se la scrolla di dosso con spontaneità, ha deciso di rimanere a Caserta, la provincia di tanti piccoli “Gorbaciof”, quella dove condurre una vita tranquilla, sempre con un piede sul palco e l’altro ben piantato a terra.Lo incontriamo al Cineclub Vittoria alla presentazione casertana proprio di Gorbaciof,piccolo gioiellino, quasi muto, che il fratello minore di casa Servillo regge con garbo e abilità, tutto sulle sue larghe spalle. «Ma perché mi fotografate? Mica sono Alba Parietti?
Che mi fotografate a fare, io sto sempre qua, mi vedete tutti i giorni in giro per Caserta». Sdrammatizza il caos creato dalla sua presenza, scherza con i vecchi amici presenti in sala, invita tutti a sostenere i baluardi di cultura della provincia, poi prende per mano suo figlio e se ne va. «Sto’ film già l’ho visto cento volte – scherza con inconfondibile cadenza casertana – ci vediamo dopo».
Da Montreal al Lido fino a Roma, nonostante il cinema la corteggi lei non trascura però il suo primo amore, il teatro. A Milano è già il tutto esaurito per la sua trilogia della villeggiatura e anche questo Gorbaciof, un piccolo Charlot metropolitano, è molto teatrale. È questo che l’ha spinta a scegliere di interpretarlo?
Le ragioni sono state tante. Tra i co-produttori del film, intanto, c’è anche la mia compagnia teatrale e quindi è un po’ come se il film fosse fatto con lo stesso spirito con cui faccio il teatro, la mia prima passione. L’equipe di collaboratori è la stessa: da Ortensia De Francesco ai costumi, a Pasquale Mari alla fotografia, a Nino Fiorito alla scenografia.Un’altra ragione è da ricercare nell’opera di Stefano Incerti. Amo molto il suo modo di raccontare Napoli, non banale. Soprattutto apprezzo il suo voler girare in luoghi della città non particolarmente celebri o frequentati. Dai suoi film emerge una Napoli grande sotto tutti i punti di vista, grande per stratificazione di storie, di segni, di mondi che si avvicendano, di vicende che si incrociano. Infine, semplicemente, perché ho amato questo piccolo racconto lirico dell’incontro tra due persone che per parlarsi devono ricorrere agli occhi, ai comportamenti piuttosto che alle parol,provenendo da paesi così diversi e lontani. L’insieme di tutti questi fattori mi ha spinto ad accettare di calarmi nei panni di Gorbaciof.Gorbaciof è la sua indiscussa consacrazione nell’albo d’oro degli attori di tutti i tempi: un personaggio estremamente complesso, che pronuncia la prima frase dopo ben ventinove minuti dall’inizio film, eppure irresistibile, coinvolgente, destinato a rimanere impresso per sempre nello spirito di uno spettatore. E a ben vedere tutti i personaggi che lei sceglie di interpretare sono emozionanti, attraenti, enigmatici, sebbene diversissimi tra loro. Ce n’è qualcuno che ha amato particolarmente o che le è venuto più “naturale” interpretare?
Non c’è mai un personaggio facile da interpretare se si rispetta questo mestiere: tutti hanno presentato delle difficoltà e tutti sono stati ugualmente emozionanti. Ognuno di essi rappresenta per me un’enorme gratificazione. È uno stimolo con il quale da sempre affronto il mio lavoro. È la magia dell’attore, guai a perderla di vista...continua

venerdì 5 novembre 2010

QUI CI VUOLE UNA SPINTARELLA…

Il sistema clientelare ammazza la competitività e la meritocrazia. Eppure sembra l’unica chance in Campania per ottenere un lavoro decente


di Lina Pasca


Spetta alla Campania la maglia nera della disoccupazione con oltre il 20% dei senza lavoro. L’allarme arriva dalla Cgia, associazione artigiani e piccole imprese di Mestre, che ha calcolato i valori della situazione occupazionale utilizzando un ulteriore indicatore, quello dei cosiddetti inattivi. In tal modo ha ridefinito il tasso della disoccupazione reale in Campania, aggravando di 6 punti percentuali la stima del dato Istat che era del 14,3%.
«Le persone che non cercano più lavoro sono in continua crescita – afferma Giuseppe Borolussi, segretario della Cgia – e determinano un fattore di errore nella stima in quanto non rientranti nelle categorie di occupati o in cerca di occupazione». Gli “sconfortati” sono tra quelli che non trovano occupazione né attraverso i canali ufficiali – i centri per l’impiego o i concorsi pubblici – né attraverso il para-sistema del clientelismo. Nel secondo caso ciò è possibile o perché si è tra gli ultimi esseri umani ad avere una morale, o perché non si hanno le conoscenze giuste.
Una volta la chiamavano raccomandazione, oggi, nell’era post-tangentopoli, bandita dal dizionario la vetusta parola da Prima Repubblica mazzetta, la si usa definire “sistema clientelare”. Esso rappresenta il male oscuro del nostro Paese, più pericoloso forse della stessa crisi. «Il Nord è efficiente, il Sud è clientelare – ha dichiarato Ignazio Marino, senatore del Pd, presidente della Commissione parlamentare per l’efficienza del Servizio sanitario nazionale – ed è per questo che bisogna commissariare le Regioni». Marino ha illustrato come in Campania la sanità pubblica sia stata spesso considerata un luogo di occupazione clientelare, dove l’amicizia con il politico di riferimento ha prevalso sul merito: «I Direttori generali sono stati valutati non su base meritocratica – continua il senatore – ma nominati sulle basi delle appartenenze partitiche». Se non parliamo di redditi da 100 mila euro in su, ma della neo-diplomata contabile alla ricerca di un posto anche da addetta alle fotocopie, o del praticante avvocato laureato con tanto di lode, cambiano le forme e gli stipendi ma i contenuti restano gli stessi. Il problema è trovare lavoro e se ciò significa affidarsi al “mani in pasta” del momento, ben venga anche questo. Meglio ancora se si è sotto elezioni: una cena con l’amministratore locale, magari con la partecipazione di un candidato alla Regione, più il parente del facoltoso imprenditore, e forse si riesce finalmente a prendere il posto. Il clientelismo diventa dunque l’alternativa, una sorta di ammortizzatore sociale, di male minore condiviso: «L’importante è portare a casa la pagnotta – dichiara Nando, fisioterapista specialista in tecniche di riabilitazione, impiegato presso un centro privato dell’Aversano –. Sì, è vero, una mano mi è stata data. Ma sono contento di averla chiesta. Se non fosse così, ora starei ancora a casa con mammà, invece a giugno del prossimo anno potrò finalmente sposarmi dopo dieci anni di fidanzamento. E poi l’importante è non rubare!».
Continuiamo la nostra indagine tra persone in cerca di occupazione o neo-assunte, tutte comunque con un livello di scolarizzazione medio-alta, e ci imbattiamo in Ilaria: «Mi sono laureata col massimo dei voti in Architettura già da cinque anni e ho frequentato più di un master presso gallerie d’arte di mezz’Europa. Ora lavoro in uno studio ad Aversa, lo stipendio è basso ma almeno ho iniziato. Se non fosse stato per l’amico di mio zio, starei ancora a far domande». Il colloquio con Ilaria si fa più intenso quando le chiedo se ha mai pensato di spostarsi al nord: «Cosa devo fare – si oppone la ragazza – abbandonare una madre anziana e un papà invalido per guadagnare non tanto, ma ciò che mi spetterebbe? Purtroppo non posso, devo accontentarmi di ciò che mi danno qui, ma quel politico si sta già impegnando per farmi aumentare lo stipendio o per trovarmi un altro posto»...continua

«NON SIAMO NOI AD ELEGGERLI»

Sandro Ruotolo, giornalista di “Anno Zero”, traccia il quadro del degrado della politica e del trasformismo elevato a sistema. Ma il Sud non rappresenta un caso particolare


di Pier Paolo De Brasi


Il vecchio male della politica italiana è duro a morire. Centocinquant’anni di unità non lo hanno scalfito, anzi oggi sembra più giovane che mai. Perché il trasformismo ritrova vigore nella politica di questo inizio millennio, ipocrita, malsana, fatta di figuranti che si atteggiano a prime donne. Ne parliamo con il noto giornalista di “Anno Zero” Sandro Ruotolo, tentando di scorgere bagliori di speranza e ottimismo.
Ruotolo, forse la domanda è banale e scontata, ma qual è la differenza tra i trasformisti di ieri e quelli di oggi?
Innanzitutto non siamo noi ad eleggere questi signori. Non ci sono più le preferenze e non ci sono più neanche i partiti, come li abbiamo conosciuti dal dopoguerra in poi. Solo la Lega assomiglia a un partito vecchio stampo, fatto di militanti presenti sul territorio. C’è sempre l’escamotage di dire che si rappresenta il popolo anche in un sistema maggioritario senza preferenze. Ma è chiaro che chi cambia casacca non ha l’impressione di tradire l’elettore. Adesso si aderisce prima al gruppo misto, per poi passare dall’altra parte. È inaccettabile, da un punto di vista etico e morale. Manca la politica con la “p” maiuscola.
Chi cambia casacca spesso è un politico di basso livello. Lo fa anche per uscire dall’anonimato e avere il suo momento di gloria?
Non c’è dubbio. Ma ci sono altri casi di politici di bassa qualità. La Lega ha un ricambio generazionale molto forte. Diventano capigruppo dei signor nessuno che però contano molto sul territorio. Nel Pdl invece, tra veline e massaggiatrici, i parlamentari non contano nulla e votano solo per ratificare ciò che ha deciso il capo. Oggi mancano dei passaggi fondamentali nella vita di un politico giovane, ma che è già arrivato in Parlamento. Non inizi, come si faceva una volta, attaccando i manifesti per strada o partecipando attivamente al congresso e alla vita di sezione. Questo si può trovare solo nella Lega e, in alcune zone, nel Pd.
Il carisma e la personalità di un leader, che si chiami Silvio Berlusconi, Umberto Bossi o chiunque altro, serve per attirare un politico da un partito a un altro?
Detto molto tra virgolette, la Lega è un partito leninista. Presenza assidua sul territorio e leader indiscutibile. Dall’altra parte c’è la figura carismatica e televisiva che ha noia della politica. Berlusconi definisce teatrino della politica la partecipazione e la discussione, anche aspra, che alla fine porta al consenso. La vicenda di Gianfranco Fini è emblematica. Il dissenso non è accettato. Dopodiché, quando la politica diventa lobby, cricca, si sta sempre con chi garantisce di più la casta, chi ti promette la rielezione sicura.
È solo un caso il fatto che, chi cambia partito, il più delle volte proviene dal Sud?
Non farei la semplificazione del meridionale che si schiera con il vincente di turno. Certo, Clemente Mastella è un esempio che racchiude in sé questo concetto, ma il trasformismo è un fenomeno molto più ampio. Ci sono stati anche dei parlamentari del nord che hanno cambiato casacca per scopi di poltrona. Penso a Lamberto Dini e ancora di più a Carlo Giovanardi, che è di Bologna. Al contrario, ciò che sta avvenendo in Sicilia mi sembra abbia una dimensione politica più importante. Da una parte Gianfranco Micciché, che si stacca dal Pdl per andare contro Angelino Alfano e Renato Schifani. Gruppi di dirigenti che, nel momento in cui la politica è meno alta, si fanno la guerra tra di loro. Dall’altra Raffaele Lombardo, i finiani e il laboratorio politico con il Pd...continua

ECCO LA CARD ANTIRACKET

Tano Grasso lancia in tutta Italia la sua proposta di una certificazione per aziende ed esercizi commerciali liberati dal pizzo. Una buona idea per invertire la rotta


di Mario Tudisco


Una card antiracket per invogliare i consumatori a fare le loro compere solo negli esercizi commerciali che pubblicamente ammettono di non voler pagare il pizzo a nessuna delle associazioni criminali operanti in Italia e all’estero. Tano Grasso, presidente del Far (Fronte antiracket) è in tour in tanti centri del Meridione sia per esporre il progetto che è alla base della card, sia per continuare a sensibilizzare gli imprenditori a ribellarsi a ogni forma di estorsione.
«Questa carta particolare serve a porre le condizioni basilari per creare un circolo virtuoso. Sono i semplici cittadini a optare per un’economia sana scegliendo di spendere presso quei negozi che escludono, in maniera categorica, di poter sottostare a ogni forma di pizzo. O che hanno già denunciato le minacce subite. Immagino che ci vorrà del tempo prima di inculcare bene questo concetto nella testa della gente ma, come testimonia il mio passato e quello dell’antiracket, tante missioni impossibili sono state realizzate».
Dottore Grasso, al centro del dibattito politico c’è una possibile nuova normativa in materia di estorsione, che spacca in due l’opinione pubblica. C’è chi vorrebbe sanzionare penalmente gli imprenditori che non denunciano il pizzo e chi vorrebbe premiarli qualora denunciassero alle forze dell’ordine nomi e cognomi degli estorsori. Qual è il suo parere a tal proposito?
Credo si tratti di due ipotesi entrambe errate. Da un lato, si è visto già che neanche le accuse di favoreggiamento riescono a indurre commercianti e imprenditori a denunciare pubblicamente gli estorsori. Figuriamoci, dunque, se un tale effetto possa essere indotto dalla semplice minaccia di una sanzione penale. Dall’altro canto, favorire coloro che denunciano il racket significa esporli maggiormente a possibili ritorsioni. Una cosa, infatti, è che un imprenditore vada in un’aula di Tribunale e indichi un suo estorsore, il quale penserà, realisticamente, di subire un incidente di percorso nella sua mala-attività e si metterà l’anima in pace. Ben altra cosa, invece, sarebbe il caso in cui l’estorsore sappia che chi lo sta accusando non difende solo gli interessi legittimi della sue attività ma che, in qualche modo, trarrà vantaggi di ogni genere dall’atto di accusa che sta facendo. Ebbene, in casi come questi mafia, camorra e ’ndrangheta non perdonano. E i loro associati hanno una memoria lunghissima come quella degli elefanti.
In che modo, dunque, si può tentare di arginare questo fenomeno inquietante?
Io penserei ad almeno due ipotesi che mi sembrano estremamente efficaci. La prima: punire coloro che non denunciano le estorsioni con l’esclusione di queste ditte o società, per tre anni, da tutti gli appalti pubblici. Guardi bene che se entrasse in vigore una normativa del genere non si potrebbero ripetere quei grandissimi scandali economici che si chiamano autostrada Salerno-Reggio Calabria o ricostruzione post terremoto in Campania. Alla fine, tutte le grandi imprese sarebbero costrette a vuotare il sacco per evitare il loro crollo in borsa. La seconda ipotesi sensata è, per l’appunto, quella della card antiracket, che potrebbe mettere in rete tutti gli operatori economici dando loro la giusta visibilità e, soprattutto, la fiducia degli italiani onesti e perbene che restano, sine dubio, la stragrande maggioranza della nostra nazione...continua

venerdì 1 ottobre 2010

L’EMERGENZA È ANCORA QUI

Raccolta dei rifiuti bloccata in gran parte del territorio, impianti e siti insufficienti, comuni indebitati. Il rischio concreto di una nuova paralisi


di Antonio Puzzi e Vincenzo Viglione


Superata la stagione estiva, consueto teatro degli episodi più eclatanti inerenti
la questione rifiuti, gli scenari che vanno ora delineandosi per Napoli e Caserta sembrano tutt’altro che incoraggianti. A partire dal capitolo occupazione.
Sono già 167 i lavoratori licenziati dalla gestione consortile casertana e altri 424 a rischio cassa integrazione. Così, negli ultimi mesi, i dipendenti del Consorzio Unico di Bacino di Napoli e Caserta hanno, a più riprese, incrociato le braccia contro il mancato pagamento degli stipendi, mandando in tilt la macchina della raccolta. Mancanza di liquidità alla quale si somma la carenza, ormai cronica, di impianti necessari al completamento del ciclo integrato. Carenza che si traduce, a sua volta, in un ulteriore aggravio di spesa. Basti pensare ai 200 euro per tonnellata che si spendono per il trasporto fuori regione della frazione umida, stimata, nelle recenti Linee di piano regionali 2010-2013 per la gestione dei rifiuti urbani, in circa 2.500 tonnellate al giorno, per un ammontare complessivo che sfiora i 500mila euro quotidiani.
Questi, e non solo, i fattori che hanno spinto nel luglio scorso gli amministratori provinciali a chiedere il rinvio dell’entrata in vigore della legge 26/2010, che fissa il termine per il passaggio dall’attuale gestione consortile a quella provinciale dei rifiuti al primo gennaio 2011.
«Sarebbe sufficiente una proroga di sei mesi – spiega Umberto Arena, assessore all’Ambiente della Provincia di Caserta – per consentire l’ultimazione della discarica di Maruzzella 3 nel Comune di San Tammaro e l’avvio dei lavori di realizzazione di un impianto per il trattamento del percolato e captazione del biogas, aspetti questi tra i più delicati della fase di smaltimento dei rifiuti solidi urbani. Per quanto riguarda il discorso raccolta – prosegue l’assessore Arena – parliamo di un ambito che al momento non è di stretta competenza provinciale, ma che fa capo ai singoli comuni tra i quali, sul fronte raccolta differenziata, si registrano numerose eccellenze che rappresentano l’orgoglio del nostro territorio, come nel caso di Camigliano, alle quali però si contrappongono numerosi casi in cui la macchina non è altrettanto efficiente e sui quali si sta lavorando».
Lavoro, quello relativo alla raccolta differenziata, sul quale, come sottolineato dai responsabili di associazioni e comitati di cittadinanza attiva, occorre investire la maggior parte delle risorse disponibili, se si vuole raggiungere gli obiettivi sanciti dalla legge 123/2008, che fissa il limite minimo del 35% di raccolta differenziata entro la fine di quest’anno e del 50% entro il 2011.
I rischi per una nuova paralisi si fanno, intanto, ancora più concreti. È risultata vera la notizia secondo la quale “Enerambiente”, società subappaltante di Asia, avrebbe bloccato la raccolta dei rifiuti dalle strade di Napoli, in quanto creditore di oltre 13 milioni di euro. I roghi di quest’estate nel comprensorio giuglianese hanno, poi, spinto le istituzioni a mobilitarsi. Il sindaco di Qualiano, Salvatore Onofaro, ha chiesto al nuovo Prefetto di convocare i primi cittadini dell’area, per discutere soluzioni efficaci, mentre Salvatore Perrotta, sindaco di Marano, ha invocato più poteri per affrontare la questione. A Giugliano, invece, l’amministrazione comunale è laconica: «Si tratta di un fenomeno vecchio e contro il quale non abbiamo strumenti per agire. La priorità ora è la bonifica del territorio». Il gruppo del Pd al Consiglio comunale ha, però, presentato un’interpellanza e si prepara ad organizzare una festa per l’ambiente. Con il passaggio dalla gestione regionale a quella comunale di otto ettari a Napoli Est è stato, intanto, impresso un colpo d’acceleratore alla costruzione del termovalorizzatore...continua

GENERAZIONE CASERTA

Nasce nella nostra provincia il movimento che ha sostenuto Gianfranco Fini nello strappo con Berlusconi. Protagonisti i giovani militanti di An e il web


di Paolo Esposito


«Nasce il primo aprile, ma non è uno scherzo». È solo il 29 marzo, ma il sito internet di Gianmario Mariniello, consigliere comunale di Aversa e segretario particolare dell’onorevole Italo Bocchino, lancia in anteprima la notizia della costituzione di Generazione Italia. Solo qualche giorno dopo sarà lo stesso Bocchino, dalle colonne dell’omonimo web magazine diretto dallo stesso Mariniello, a precisare che non è un partito e non è una corrente: si tratta di qualcosa di più ambizioso e ha come obiettivo quello di aggregare giovani generazioni e stimolare un dibattito.
«Il movimento Generazione Italia, associazione nata per iniziativa di Gianfranco Fini, veniva alla luce appunto come un laboratorio di idee di ispirazione liberale, le cui parole d’ordine dovevano essere militanza, partecipazione e forza di volontà». A parlare è Luigi Di Gennaro, 30 anni, responsabile di Generazione Giovani, movimento giovanile legato a GI e portavoce dell’onorevole Bocchino, col quale condivide tra l’altro lo stretto legame con la sua terra, Frignano. Lo raggiungiamo proprio nel corso principale del paese, è da poco rientrato da Roma dopo un intenso mese di battaglie politiche e tutti lo fermano per chiedergli della nuova avventura. «Sei finiano ora, vero?», gli chiede un amico al bar. «Berlusconi sta facendo di tutto per allontanare Fini», lo stuzzica ridendo un vecchio amico di famiglia. Poco distante da casa sua un circolo del Pdl e a due passi anche quello dell’Udc.
Generazione Italia come aggregatore sociale? «Sì, uno strumento per avvicinare persone nuove, con particolare attenzione a queste realtà spontanee che sono la linfa vitale del nostro futuro. L’impostazione non vuole essere quella di un partito, non a caso abbiamo introdotto uno strumento innovativo, quello dell’iscrizione online, per disincentivare la politica vecchio stampo della vendita di pacchetti di tessere». Siamo al 29 aprile, giorno del primo scontro Fini-Berlusconi. Bocchino rassegna le proprie dimissioni da vicepresidente vicario del gruppo del Pdl alla Camera e dal sito di GI si sfoga contro la gestione del partito.
«È a partire da quella data che abbiamo deciso di lanciare la campagna sul territorio – continua Luigi Di Gennaro – ci arrivavano numerose mail da parte di cittadini delusi che chiedevano di costituire nuclei cittadini e così, nel giro di una notte, abbiamo messo su un regolamento e dopo solo due ore, mentre noi eravamo a Roma, proprio qui a Frignano, su iniziativa di Alfonso Conte, nasceva il primissimo circolo territoriale di Generazione Italia». Oggi ci sono almeno 600 circoli dislocati su tutto il territorio nazionale e un seguito di 14mila persone, Campania in testa, mentre il web magazine del movimento conta 20mila visitatori unici al giorno.
Come si inserisce Generazione Giovani in questo progetto? «È senz’altro il punto di forza della nostra idea, perché bisogna svecchiare i movimenti giovanili e consegnarli nelle mani dei giovanissimi che hanno voglia di impegnarsi in prima persona, anche in un territorio difficile come questo». Un territorio, a detta di Luigi Di Gennaro, in cui fare politica per i giovani è difficile, perché domina la vecchia impostazione del politico di turno che tende a chiudere e a stringere a sé la struttura del partito e a non proiettarla al futuro e soprattutto all’Europa. «Con Gianmario Mariniello veniamo da una lunga esperienza a livello locale, la politica l’abbiamo vissuta, abbiamo imparato ad inventarci le campagne e, forti di quella militanza nell’Agro aversano, abbiamo dato il nostro contributo a livello nazionale proponendo un nuovo modo di intendere la politica»...continua

«MA NON È COLPA DELLA PIOVRA!»

Remo Girone, l’indimenticabile sagoma di Tano Cariddi, commenta le uscite di Berlusconi sulla storica fiction che ha fatto conoscere la mafia nel mondo. Un episodio nella solita storia del potere che vuole mettere sotto controllo la cultura


di Mario Tudisco


Come milioni di italiani abbiamo visceralmente odiato l’uomo che ci troviamo di fronte per l’intervista. D’altronde, non sarebbe stato possibile provare sentimenti diversi nei confronti di Tano Cariddi, il personaggio interpretato dall’attore Remo Girone che, nelle varie edizioni de La Piovra, incarnava il male assoluto. «All’epoca di questa riuscitissima fiction, che è stata poi esportata in mezzo mondo, mi resi immediatamente conto della grandissima popolarità che mi aveva conferito. La gente mi fermava per strada o fuori i teatri – e lo fa ancora oggi a tanti anni di distanza – per dirmi: lei è bravissimo, è un grande attore ma non ce ne voglia, ci sta davvero sullo stomaco! Ma mica è così cattivo anche nella vita privata?». No. Girone – oltre ad essere un attore di grandissima qualità – è un uomo tranquillo e disponibile, che parla a voce bassa, quasi sussurrando le parole. Se vogliamo, però, anche Tano Cariddi difficilmente alzava la voce, soprattutto quando impartiva gli ordini per gli omicidi più terrificanti.
Nonostante il suo grande successo, La Piovra, la fiction mafiosa di cui lei era uno dei protagonisti principali, è stata oggetto di innumerevoli critiche. Ultima – per ora – quella avanzata dal presidente Silvio Berlusconi, che vi accusa di aver dato un’immagine distorta e infelice degli italiani.
Guardi, conosco bene i rilievi mossi da Berlusconi. Ma non posso condividere, neanche minimamente, le sue perplessità sulla Piovra. E ciò, almeno per due valide ragioni. La prima: la nostra fiction, nonostante alcune scene terribili, era quasi una versione edulcorata di Cosa Nostra, che compiva stragi da noi mai simulate. La seconda: ritengo che sia compito degli artisti quello di riportare ciò che accade in un paese, in un determinato periodo storico, senza infingimenti e senza dover chiudere gli occhi sulla amara realtà che noi tutti abbiamo vissuto in quegli anni. E poi, diciamocela tutta, l’immagine di un’Italia mafiosa esisteva nel mondo molto prima della Piovra. Magari con il nostro incredibile successo l’abbiamo involontariamente amplificata. Ma non dobbiamo mai dimenticare i barbari assassini di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e di tanti altri fedeli servitori dello Stato, uccisi perché indagavano troppo. Non voglio continuare a polemizzare con il leader del Pdl, ma accusarci di aver guastato l’idea della nostra nazione è un’affermazione ingiusta. Se poi mi permette, vorrei ricordare che ci sono stati anche altri illustri precedenti, ugualmente ingenerosi e immotivati, da parte del “potere” nei confronti del cinema italiano.
Ce ne può fare un esempio?
Beh, pochi lo ricordano, ma perfino Giulio Andreotti, che pure non era uso a polemiche o a rimproveri fuori luogo, ebbe da ridire a proposito di Ladri di Biciclette, con motivazioni simili a quelle usate in seguito da Berlusconi: un film che infangava l’immagine del paese. Ma si rende conto: stiamo parlando di un capolavoro del cinema mondiale di tutti i tempi! La Piovra – per l’amor del cielo! – non era un capolavoro del genere. Piuttosto l’avrei definita un prodotto artigianale ben confezionato. Comunque sia, è innegabile che vi sia stato sempre un indebito tentativo di ingerenza da parte di chi comanda nei confronti di artisti, registi e attori. Tentavi, però, fortunatamente andati a vuoto. E, d’altro canto, se La Piovra ebbe tutto quel successo vuol dire che gli italiani l’avevano apprezzata ritenendola, in qualche modo, aderente alla realtà di quegli anni, non crede?...continua

venerdì 27 agosto 2010

DOSSIER CALDORO, IL PDL CAMPANO FA SCUOLA

Ben prima della vicenda della casa di Montecarlo, la fantomatica P3 confezionava una relazione calunniosa sull’attuale presidente della Regione. Con la regia dell’ex sottosegretario all’Economia Nicola Cosentino


di Lina Pasca e Raffaele de Chiara


«Eviterei la santificazione. Sono un peccatore come tanti, ma non per i peccati che mi attribuiscono». Sorride ironico il governatore della Campania Stefano Caldoro, mentre nella prima seduta del consiglio regionale, dopo la bufera politico-giudiziaria della “P3”, allude al falso dossier sulle sue presunte tendenze omosessuali, che sarebbe stato redatto dal suo compagno di partito e avversario alla candidatura come presidente della Regione Campania Nicola Cosentino. «Ma quell’amico la relazione l’ha portata o no?». È Cosentino a chiederlo al telefono ad Arcangelo Martino, imprenditore legato alla cosiddetta “P3”, la presunta loggia segreta capeggiata dal faccendiere Flavio Carboni e che avrebbe avuto tra i suoi molteplici scopi anche quello di favorire la candidatura di Cosentino in Campania. «La relazione», secondo gli inquirenti, altro non sarebbe che un falso dossier da cui si dovevano evincere le tendenze omosessuali di Caldoro, peccato imperdonabile secondo le valutazioni di Cosentino, all’epoca dei fatti sottosegretario all’Economia e coordinatore regionale del Pdl. Di quel dossier se ne è persa traccia, il candidato vincente alla fine è risultato essere Caldoro e l’unico strascico di quella storia, fino all’intervento della magistratura, è un documento comparso su un blog, poi oscurato, che faceva riferimento all’esistenza di quel contenuto. «Non finisce così, non finisce qua, anche Nicola lo sa». Lo afferma il presidente della Regione Campania, riferendosi a Cosentino e ai falsi dossier su frequentazioni di transessuali che sarebbero stati costruiti su di lui. «Esistono delle dinamiche interne – commenta Caldoro – per le quali nessuno è sicuro di potere andare avanti». E se per il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi i vertici della presunta loggia “P3”, che avrebbero tramato contro il suo candidato a presidente della Regione Campania, «sono solo quattro pensionati sfigati», Caldoro si dice curioso di sapere chi c’è dietro, chi diede le carte su di lui a Denis Verdini (uno dei coordinatori del Pdl e anch’egli coinvolto nella medesima inchiesta, ndr). Una curiosità che lui stesso è “obbligato” a smorzare: «Quando il rapporto è intermediato dalla politica – dichiara – certe curiosità devi controllarle. In ogni caso – continua Caldoro – non penso che i napoletani credano a questa roba». Alle accuse di aver in qualche modo pilotato il dossier, Cosentino risponde di aver agito quasi da “infiltrato” «per capire a quali rischi poteva essere esposta la campagna elettorale del Pdl e del suo candidato presidente». Ha poi aggiunto che «i rapporti tra lui e Caldoro non devono essere a tutti i costi buoni sul piano personale, ma di corretta interlocuzione istituzionale». Affermazione quest’ultima che non è piaciuta al leader di “Generazione Italia” Italo Bocchino, secondo cui tra Caldoro e Cosentino non vi può essere nemmeno un accenno di dialogo. «Dopo ciò che ha fatto Cosentino ai danni di Caldoro – dice Bocchino – il presidente della giunta regionale dovrebbe interrompere, da subito, ogni rapporto. Non dovrebbero neanche salutarsi, altro che interlocuzione istituzionale. Cosentino – conclude Bocchino – è un ostacolo oggettivo al funzionamento della giunta regionale». Ma il numero due di “Futuro e Libertà” va oltre, aggiungendo che «dopo l’estate Cosentino sarà costretto a lasciare il suo posto di direzione del Pdl campano e, in quel caso, avremo finalmente un coordinatore che andrà d’accordo con Caldoro. Aspettiamo che Berlusconi e i vertici di partito intervengano per rimuoverlo. È impensabile che Caldoro possa governare avendo come interlocutore il responsabile del principale partito di maggioranza che ha lavorato con notizie false e denigranti per eliminarlo dalla competizione elettorale...continua

QUEGLI OPERAI CHE NON SE NE VANNO

Tutti i giorni fuori ai cancelli di Melfi, i tre delegati Fiom allontanati dalla Fiat e reintegrati sul posto di lavoro dal giudice rappresentano un conflitto aperto nella grande industria del Sud,da Melfi a Pomigliano


di Francesco Falco



Finisce in tribunale il braccio di ferro tra la Fiat e tre lavoratori dello stabilimento di Melfi – Giovanni Barozzino, Antonio Lamorte e Marco Pignatelli – licenziati dall’azienda poche settimane fa. E nemmeno, perché in tribunale questa storia non finisce, avendo un giudice stabilito il reintegro dei tre, con l’azienda che controreplica decidendo di non avvalersi delle loro prestazioni lavorative fino al 6 ottobre, giorno in cui verrà esaminato il ricorso della Fiat contro il reintegro stabilito dal giudice. Loro confinati, nel frattempo, in una saletta per consentire «l’esercizio dell’attività sindacale», con la Fiom che annuncia un’azione legale e gli appelli dei lavoratori al Presidente Giorgio Napolitano perché «venga ristabilita la democrazia in Italia». Una storia emblematica della conflittualità permanente che regna non solo nello stabilimento di Melfi, significativa se condensata in questa immagine: tre uomini che si recano al lavoro scortati dai Carabinieri e da un ufficiale giudiziario, la vigilanza interna dell’azienda che li blocca e li dirige verso la “saletta sindacale”. Giovanni Barozzino parla al telefono con noi di una vicenda che si rimodula, con nuovi accadimenti, anche ora mentre scriviamo. La voce bassa che fatica a ripetere quanto detto ai cronisti piovuti fuori allo stabilimento di Melfi da tutta Italia per raccontare una storia che non attiene più, ormai, solo ai loro destini individuali.
Come si esce da una situazione come questa?
Stiamo valutando con i legali del sindacato come meglio agire. La Fiom si sta muovendo legalmente, ha già presentato una denuncia penale. Per quanto ci riguarda, noi licenziati non vogliamo che ci tolgano la dignità. Ci viene detto di andare e non poter lavorare: che significa? Ma stiamo scherzando?
La Fiat vi ha “confinato” in una saletta, sostenendo di voler fare a meno delle vostre prestazioni lavorative.
È tutto paradossale: come possiamo, seppure volendo, fare attività sindacale in uno stanzino a quattro, cinquecento metri di distanza dai lavoratori? Me lo dica lei, come.
Qual è lo scenario verosimile dei prossimi giorni?
Noi andremo a lavorare, ci recheremo in azienda: non siamo parassiti, io voglio lavorare, andremo in azienda tutti i giorni finché non ci sarà consentito di lavorare. Noi non abbiamo fatto niente, assolutamente. E non lo dico solo io, che posso risultare interessato, ma un giudice che l’ha accertato dopo sedici ore di testimonianza, ascoltando tanto la parte aziendale quanto i lavoratori.
Crede che l’atteggiamento di Fiat sia un pretesto per scelte aziendali future o per rimodulare accordi sindacali?
Il sospetto c’è, è forte.
C’è chi bolla la Fiom come estremista.
Innanzitutto dico questo: la Fiom-Cgil chiede continuamente tavoli di trattativa e non le vengono concessi, si è mostrata disponibile a trattare su tutto – e dico tutto – tranne che sui diritti dei lavoratori sanciti nella Costituzione. Oltre a quello, lo domando io a lei, che cosa può fare un sindacato? E poi vorrei ricordare che soltanto due mesi fa Sergio Marchionne ha definito questo stabilimento come il punto d’eccellenza non d’Italia, ma d’Europa! Abbiamo festeggiato qui a Melfi i cinque milioni di vetture realizzate. Come si sarebbe potuto fare se il nostro sindacato non fosse stato serio e responsabile? Come avremmo raggiunto un risultato del genere?...continua

«LA LOTTA PER IL LAVORO È LA NUOVA»

Antonio Ghirelli, leggendaria firma del giornalismo italiano, racconta i suoi anni con Pertini e i valori che li ispirarono. A partire dall’impegno per il Paese


di Mario Tudisco


«Al porto di Genova quel giorno, siamo verso la fine degli anni Settanta, la tensione era alle stelle per l’assemblea dei Camalli, che venivano considerati tutti vicini alle Brigate Rosse. Io ero giunto nel grande magazzino un po’ prima di Sandro Pertini. Fino all’ultimo il prefetto ci sconsigliò di intervenire, ma Sandro fu irremovibile. Entrò nel salone, prese un megafono e disse: “Non vi parla il Presidente della Repubblica ma il compagno Pertini. Io ho conosciuto solo le Brigate Rosse della Resistenza che ho guidato contro i fascisti e contro i nazisti, ma questi qui che hanno in comune con dei democratici come voi?”. Pochi secondi dopo l’intera assemblea iniziò a battergli le mani e non la finivano più».
L’io narrante di questo aneddoto si chiama Antonio Ghirelli, ottantotto anni portati alla grande e memoria storica italiana dagli anni Trenta in poi. E con lui è impossibile non parlare del Presidente della Repubblica più amato da sempre dagli italiani e dalle italiane: Sandro Pertini, di cui fu capo ufficio stampa nei sette anni che il mitico esponente socialista soggiornò al Quirinale. «Ancora oggi lo ripeto ai giovani che non erano ancora nati quando Sandro era Presidente. Era un uomo di grandissimo carisma, che definirei spirituale. Quando gli studenti delle scuole salivano al Colle, cacciava fuori i professori e gli accompagnatori e si faceva dare del tu dai ragazzi. Per me è stato anche più popolare di Diego Maradona, pur non avendo l’età giusta per giocare a calcio».
Professore, immagino che sette anni di lavoro fianco a fianco con Pertini restino indelebili nella sua mente. Del Presidente si è detto e scritto di tutto, prima e dopo il suo decesso. Lei che lo ha conosciuto bene come può raccontarlo alle nuove generazioni?
Era un personaggio eccezionale già molti anni prima che succedesse a Giovanni Leone. Io ho avuto la fortuna di conoscerlo molto presto. Per spiegare ai giovani di oggi di quale tempra fosse fatto Pertini sono costretto a raccontarle degli aneddoti. Il primo: poco dopo la Liberazione di Roma, Sandro si incontra con Pietro Nenni il quale gli dice: «Ora che è tutto finito tieniti pronto che sarai nominato ministro degli Esteri del governo che si insedierà prossimamente». Al che Pertini non fa una piega e gli risponde: «Mi piacerebbe molto accettare ma non posso. Tra poco devo incontrare un capitano della Raf che mi farà paracadutare in Alta Italia dove devo guidare le truppe della Resistenza nella battaglia finale». Capito che razza d’uomo era?
E il secondo aneddoto?
Sandro Pertini, nonostante avesse due lauree, per sfuggire ai fascisti si era rifugiato a Nizza dove sopravviveva facendo il manovale. Siccome apparteneva a una famiglia molto benestante aveva ricevuto in dono venti milioni di lire che, all’epoca, rappresentavano una cifra esorbitante. Naturalmente, Sandro non pensò minimamente di mettere in banca questo patrimonio ma lo devolse per la costruzione di una stazione ricetrasmittente in modo tale che anche i compagni socialisti potessero far sentire la loro voce in quei mesi terribili. Lui, infatti, era geloso delle capacità che avevano i comunisti di propagandare le loro idee e, stanziando quei venti milioni di lire, pensava di pareggiare il conto. Peccato, però, che fu subito convocato dalla gendarmeria francese che gli impose di chiudere immediatamente la mini stazione radiofonica. I francesi comunque furono gentili con Pertini, tanto che il funzionario gli disse: «Lei ha commesso un reato per cui dovrebbe essere arrestato. Per molto meno ai polsi di chiunque sarebbero scattate la manette, ma per la Francia sarebbe un disonore arrestare Sandro Pertini. Per favore esca da qui immediatamente!».
Al di là delle invidie propagandistiche, sembra che Pertini avesse buoni rapporti con i comunisti…
Sì, soprattutto con Enrico Berlinguer. Anzi, ad essere sincero tanto poco sopportava Bettino Craxi quanto adorava il numero uno di Botteghe Oscure, che era caratterialmente il suo opposto. Così come era sanguigno e impulsivo Pertini, tanto era riflessivo e schivo Enrico. Si ricorda le polemiche dopo che era andato a prendere la salma di Berlinguer con l’aereo presidenziale?
I socialisti non gradirono affatto quel grande gesto umanitario…
Sì, e incautamente Claudio Martelli ebbe l’ardire di criticare pubblicamente Pertini dopo che il gesto a cui si riferisce costò a noi socialisti la bellezza di trecentomila voti. Sandro andò su tutte le furie e rispose al vice di Bettino dalle colonne dei giornali: «Caro Claudio – disse – fa una cosa, suicidati sulla tomba di Giulietta a Verona che poi vengo con l’aereo presidenziale a recuperare il tuo cadavere e vedremo quanti voti recupereremo»...continua

venerdì 6 agosto 2010

GLI ULTIMI GIORNI DELL’IMPERATORE


Dopo lo scandalo P3, Nicola Cosentino è alle corde. Potrebbe lasciare il coordinamento del Pdl a breve. Il fedelissimo Landolfi: «È finito un ciclo»


di Alessandro Pecoraro


Nonostante sia piena estate, l’aria che si respira nel Popolo della libertà è gelida. La bomba scoppiata dopo la pubblicazione delle vicende legate all’inchiesta dell’eolico in Sardegna ha provocato vittime anche in Campania, dove la cricca, che sarebbe guidata da Nicola Cosentino (nella foto), è stata messa a nudo dai pubblici ministeri, grazie al prezioso ausilio delle intercettazioni telefoniche.
Secondo le indagini della magistratura, Cosentino, insieme al dimissionario assessore all’Agricoltura Ernesto Sica e ad altri fedelissimi, nell’ultimo anno avrebbe dato vita a una loggia segreta (definita P3) utilizzata, tra l’altro, per impedire ai vertici del Pdl di candidare Stefano Caldoro a presidente della Regione Campania.
Le pressioni sarebbero state forti a tal punto da mettere in piedi un dossier a luci rosse confezionato per convincere l’attuale governatore della Campania a ritirarsi dalla corsa alle ultime regionali. A poco più di un mese dallo scandalo campano, ciò che resta è un partito allo sbando.
Cosentino, dopo essere stato costretto alle dimissioni da sottosegretario all’Economia, potrebbe presto abbandonare anche la carica di coordinatore regionale.
I malumori nel Pdl regionale, infatti, sono ai livelli massimi: basti pensare alle posizioni critiche di Italo Bocchino e di tutti i finiani, ma anche alle parole del sottosegretario Pasquale Viespoli, che ha sollecitato un gesto di disponibilità da parte dell’oligarchia che ha in mano il partito, in quanto «si rischia di determinare una criticità rispetto all’autorevolezza del Pdl nella dialettica partito-governo regionale».
Ma non è tutto, anche il governatore della Campania, dopo aver estromesso Ernesto Sica dalla giunta e ottenuto la fiducia da parte della giunta e del consiglio, è pronto a prendersi la rivincita sfrerrando l’attacco finale nei confronti di Cosentino. Il coordinatore del Pdl campano, a quanto pare, è stato abbandonato anche dal suo vice Mario Landolfi, secondo cui ormai si è chiuso un ciclo: «Dobbiamo prenderne atto – ammette –. Ora bisogna aprire una riflessione all’interno del partito.
Serve un cambio di passo. La classe dirigente che ha compiuto questo percorso deve chiedersi, a cominciare da me, se è in grado o meno di guidare un nuovo corso».
Lo scenario che si profila per Cosentino è terrificante, l’ex zar del Pdl campano è stato sopraffatto dalla sua smania di controllare tutto e tutti, dapprima eliminando la famiglia Martusciello dalla guida di Forza Italia, poi facendo fuori i fedelissimi di Italo Bocchino ed, infine, puntando i piedi per evitare la candidatura di Mimì Zinzi alla provincia di Caserta, una decisione che provocò anche le dimissioni, immediatamente revocate, dalla guida del partito in Campania.
Dopo essere stato indotto a gettare la spugna sugli incarichi di governo, Cosentino, non appena terminerà l’estate, sarà inevitabilmente costretto a dire addio anche alla guida del partito campano, un addio che non sarà semplice né indolore...continua

LA DERIVA DEI DEMOCRATICI

Il coordinatore provinciale del Pd Enzo Iodice abbandona il partito dopo il commissariamento. È polemica sulla nomina del dirigente Ciro Cacciola


di Alessandro Pecoraro


Non c’è pace per il Pd in provincia di Caserta, che tra liti, tesseramenti gonfiati, fughe dal partito, primarie annullate e risultati elettorali poco esaltanti, è giunto al capolinea con le dichiarazioni al vetriolo dell’ex coordinatore provinciale Enzo Iodice, il quale, dopo le dimissioni causate dal flop del risultato elettorale di marzo, ha deciso di abbandonare il partito per approdare in lidi più tranquilli (si pensa all’Alleanza per l’Italia di Francesco Rutelli).
«In oltre quindici anni di esperienza politica – afferma Iodice – sono sempre stato coerente nelle mie scelte, come si suol dire, tirando la carretta e lavorando per il bene del centrosinistra casertano. Però, dopo la decisione di commissariare il coordinamento provinciale del Pd, sono venute meno le motivazioni che mi hanno spinto in questo percorso. Mi dispiace per come sono andate le cose, perché ho sempre creduto nel Pd ancor prima della sua nascita, però non posso continuare a stare in un partito che di fatto non è mai nato. Pur nutrendo profonda stima per il commissario Ciro Cacciola, non posso esimermi dal dire che la sua presenza è il vero segno della crisi di questo partito».
L’ex coordinatore provinciale, nominato nel 2006 grazie ad un accordo trasversale e fortemente voluto da Antonio Bassolino, è riuscito nella non facile impresa di portare il Pd casertano alla deriva, con la fuga di decine di iscritti e un magro 12% ottenuto alle elezioni provinciali. Le principali colpe di Enzo Iodice sono da imputare al fatto di non essere riuscito a trovare un filo comune per poter accontentare tutte le correnti interne al partito.
Basti pensare che la selezione del candidato alla guida della provincia è avvenuta ad appena un mese delle elezioni. Una scelta che non ha prodotto i risultati sperati, inducendo alcuni big addirittura ad abbandonare il partito, come Pasquale De Lucia e Lorenzo Diana, che hanno scagliato verso Iodice e gli altri dirigenti un pesantissimo atto d’accusa.
I risultati delle elezioni provinciali non hanno fatto altro che condurre il partito alla resa dei conti. Così mentre è continuato il tutti contro tutti, Pierluigi Bersani ha ben pensato di commissariare il partito provinciale affidandolo al “bassoliniano” Cacciola. «Faremo in modo che questo periodo di transizione duri il meno possibile – sono state le parole del neo commissario – ma gli obiettivi prioritari che ci poniamo sono altri. È indispensabile, soprattutto, ricucire i rapporti all’interno della coalizione di centrosinistra e sanare tutte le incomprensioni con gli alleati».
Il compito di Cacciola è molto complesso. Una scelta che, come evidenzia Iodice, ha condotto il partito in una crisi ben più grave, basti pensare alla situazione di Santa Maria Capua Vetere, dove il sindaco Giancarlo Giudicianni ha abbandonato il Pd in aperto contrasto con le scelte dirigenziali, o a Caserta, dove oltre la metà dei consiglieri in quota Partito democratico hanno cambiato casacca...continua

«A TEATRO SONO SOLO ME STESSA»


Amanda Sandrelli, figlia d’arte, si racconta. Dal debutto con Massimo Troisi e Roberto Benigni fino alla tournée con uno spettacolo sui politici italiani


di Mario Tudisco


«Quando arrivai sul set del film, Roberto mi venne incontro saltellando e, con il suo inconfondibile accento toscano, continuava a ripetermi: “Il tuo è un ruolo non grande... non piccolo… è una parte non piccola, ma non grande...”, fino a quando Massimo, fingendosi spazientito, iniziò a urlare: “Robe’ è un ruolo medio! Non esistesse la parola… ma esiste: medio!”. Io iniziai a ridere piegandomi in due e ho continuato a ridere per tutta la durata delle riprese. Anche il mio tormentone – che ancora oggi ricordano tutti quelli che hanno visto la pellicola – iniziò per caso quando Massimo mi disse: “Fai ‘na cosa, dì sempre la stessa parola fino a quando non te schiatte ‘e risate tu stessa prima di dirla nuovamente”». Correva l’anno 1984 e un’acerba Amanda Sandrelli (all’epoca diciannovenne, anche se dimostrava qualche anno in meno) si imbatte – sul set di Non ci resta che piangere – in Roberto Benigni e Massimo Troisi, in un periodo di grande grazia artistica. Non male, dunque, per il debutto della figlia di Gino Paoli e Stefania Sandrelli, che è oggi una delle lady indiscutibili del teatro italiano. «Se Massimo avesse vissuto ancora sono sicura che lui e Roberto si sarebbero rincontrati. E mi sarebbe piaciuto da morire ritrovarmi di nuovo sul set insieme a questi due fenomeni. Uno (Benigni) un vero e proprio clown, l’altro (Troisi) dotato di una irresistibile malinconia mista ad allegria. Del film esisteva solo il canovaccio di base. Tutto il resto lo inventarono loro due, a mano a mano che le riprese continuavano».
Amanda, si può dire che tu già avevi dimestichezza con i grandi artisti, essendo la figlia di Gino Paoli e di Stefania Sandrelli. A proposito, è un vantaggio o un handicap entrare a far parte del mondo dell’arte e dello spettacolo come prole di cotanti genitori?
Inizialmente è un vantaggio, un grande vantaggio, in quanto hai delle opportunità che molto difficilmente – come nel mio caso ad appena diciannove anni – possono avere i giovani. Una cosa è se ti presenti da perfetta sconosciuta; ben altra cosa è se sei la figlia di una coppia famosa. Detto questo, c’è anche il rovescio della medaglia: i paragoni continui con mamma e papà. E forse io ho iniziato a fare teatro proprio per sottrarmi inconsciamente a questi paragoni. Papà Gino canta e io non canto; mamma Stefania gira film e io di film ne ho fatti pochini. Insomma, molto meglio il teatro: lì la gente viene a congratularsi nei camerini, se è piaciuto loro lo spettacolo, non perché sei la figlia di persone famose.
Fare teatro, così come per ogni altra attività artistica, è diventato davvero duro nell’Italia dei tagli economici. Non parliamo poi di quanto sia difficile imporsi per chi è nato a Napoli o a Caserta...
Sì, è molto difficile continuare a fare teatro in questo nostro martoriato Paese. Eppure io resto convintissima che la cultura non sia e non debba mai essere un optional. Anzi, aumentare il tasso di cultura di una nazione aiuta tutti a vivere meglio. Peccato che questo concetto non sia affatto di gradimento al nostro amatissimo premier.
Non ti piace proprio Silvio Berlusconi...
Sinceramente no, neanche un poco. Le sue esternazioni – ad essere ancora più sincera – a volte mi lasciano basita. Tu prendi la sparata che ha fatto contro la Piovra e contro Gomorra. Secondo lui parlare di queste fenomenologie malavitose danneggerebbe l’immagine dell’Italia all’estero. Io, invece, sono convinta del contrario. E sono altrettanto convinta che non parlarne sarebbe peggio. Personalmente a Roberto Saviano costruirei un monumento: è giovane, è bravo ed è costretto per le scelte che ha fatto a vivere una vita marginale e blindata, ventiquattro ore su ventiquattro. Non so se io al suo posto avrei avuto lo stesso coraggio. Anzi, diciamocela tutta: avrei avuto paura, non mi sarei mai esposta in questo modo e, alla fine, sarei fuggita dalla Campania come fanno in tanti. Per me il vero problema non è Saviano, che parla di queste terre che, come Caserta, nonostante i mali radicati, hanno potenzialità infinite. Il vero e unico problema è chi cerca di mettere il bavaglio a tutti coloro che non la pensano come lui...continua

venerdì 2 luglio 2010

IN CAMPANIA, SOGNANDO IL DOLCE FAR NIENTE

Beauty farm e stazioni termali con trattamenti innovativi, come il percorso "kneipp" e i massaggi con l’olio d’oliva. Itinerari del benessere a due passi da casa


di Marilena Mincione


«Ritrova il tuo benessere psicofisico. Lasciati tentare da una vacanza all’insegna del relax». L’invitante messaggio di posta elettronica promozionale arriva nel mezzo di una ricerca sulla vacanza più rilassante e rigenerante possibile: la vacanza del turismo del benessere, in gergo "wellness". La mail – riferita a un hotel terme di Ischia – presenta scenari di acque termali (grazie a cinque piscine apposite), massaggi, aree benessere con sauna, bagno turco, idromassaggi e palestra. Non solo spiaggia privata dunque – pure prevista – ma anche gli ingredienti tipici di un soggiorno totalmente antistress, compresa la possibilità di intrattenere eventuale prole in un enorme parco giochi con animazione gratuita. Lo scenario, però, diventa ancora più intrigante quando propone, come continua la mail, «docce emozionali e percorso "kneipp"». Superata la superbia di arrivarci per associazione di idee, proviamo a informarci su cosa siano le prime e ci tuffiamo, con l’immaginazione, in mini percorsi di benessere che offrono diverse funzioni in poco spazio. L’obiettivo è stimolare i cinque sensi con un gioco di colori, profumi, essenze oleose e suoni che cambiano a seconda del tipo di doccia: esistono docce fredde "brezza" o calde "tropicali" con colori (blu per la prima, ambra per quella calda) ed essenze specifiche. L’acqua è la protagonista anche nel percorso "kneipp": giocando sul contrasto freddo-caldo, si aiuta la circolazione sanguigna di piedi e gambe – camminando anche su sassi di fiume levigati e adeguatamente posizionati – proprio alla maniera degli antichi romani.
Ischia, Capri e Procida, insieme alla costiera amalfitana, alla penisola sorrentina e ad alcune zone del litorale flegreo, sono le mete preferite per chi cerca in Campania i benefici dei centri benessere e delle beauty farm, di cui moltissimi alberghi – intuendone i vantaggi – si sono attrezzati. Ma anche – Ischia in primis – delle terme, che in genere vengono associate a Contursi, Agnano e Pozzuoli.
Eppure strutture – beauty farm in particolare – che coccolano il cliente con trattamenti estetici, dimagranti e termali si possono trovare in tutta la regione. La Campania, del resto – insieme a Veneto, Toscana ed Emilia Romagna – è tra le destinazioni preferite degli italiani che scelgono le vacanze benessere termali. Lo dicono i dati dell’Osservatorio nazionale del turismo, per il quale gli italiani avrebbero svolto nel 2009 oltre un milione di vacanze "antistress". Le località termali e del turismo del benessere accolgono il 4,2% delle presenze turistiche stimate nelle strutture ricettive alberghiere ed extralberghiere nel nostro Paese, ovvero oltre 15 milioni di presenze all’anno (vi è una leggera prevalenza di clientela internazionale). Tra le principali motivazioni prevale la voglia di benessere e fitness (46%), il desiderio di trascorrere una vacanza rilassante (35%) in un ambiente naturale di pregio (30%), infine gli interessi enogastronomici (21%). Nel corso della vacanza uno su due visita Spa (Stabilimenti termali) e centri benessere; il 37% pratica attività sportive...continua

«NOI SIAMO USCITI DALLA CRISI»

Lo afferma Carlo Benigno, presidente di Unica, il polo calzaturiero di Carinaro-Teverola che registra una crescita lenta ma costante di commesse. Ecco il nuovo Made in Italy


di Alessandro Cenni


Carlo Benigno, imprenditore, presidente di Unica, non dimentica le sue origini. Nel 1987, i suoi 300 metri quadri d’industria fruttavano 18 miliardi di lire. Più di dieci anni prima, nel ’72, suo padre, con duecentocinquanta dipendenti a regime, aveva intuito la necessità della specializzazione: tagliatore, orlatore, montatore. Ad ognuno il suo. «Fino a quando conoscerai i nomi di tutti loro» gli rammentava il padre «potrai dire di conoscere bene la tua fabbrica». E guai a chiamarli dipendenti, Benigno ci corregge subito: «Ho 40 collaboratori: io mi preoccupo di far star bene loro e loro fanno altrettanto. Loro sono dei veri e propri artisti».
Siamo al Polo Unica di Carinaro. Un consorzio, all’origine, di 24 imprenditori del settore calzaturiero. Trecentomila metri quadrati, un’area divenuta propulsiva per l’affermazione del Made in Italy nel mondo. Ma non ci troviamo nel Varesotto o nel Veneto. Siamo a Carinaro, in Terra di Lavoro. Siamo a 10 chilometri da Casal di Principe. Eppure la crisi, per Carlo Benigno, è acqua passata. «L’abbiamo subita dieci anni fa e ne siamo usciti – ci racconta – come dalla sala di rianimazione: con le ossa rotte, certo. Ma ci siamo evoluti, abbiamo cambiato pelle e ora stiamo investendo».
Ricostruisce l’ultimo ventennio, dall’ascesa nel tessile e nel calzaturiero del "Far East". La chiamiamo Cina, ma l’effetto non cambia: «Nel ’98 si producevano 600 milioni di scarpe. Fatturato? Uguale a quello cinese, che però ne produceva 5 miliardi. La qualità era scarsa, il loro mercato era l’Africa, l’America del sud. Poi l’accelerazione, spaventosa». Passeggiamo tra gli operai al lavoro. Tecnologia e manodopera di qualità, padri di famiglia e catena di montaggio. Molti i giovani, le donne. «Il trend di assunzione è in ascesa. Abbiamo contattato tanti giovani già formati, rimasti senza lavoro per via della crisi» ci spiega. «Altri li abbiamo formati a spese nostre, li abbiamo seguiti noi. Formazione applicata, direttamente sulle macchine. Ci vogliono dieci anni, forse anche di più, per aver un buon artigiano».
Continuiamo il giro, tra gli artigiani al lavoro. Sembrano sul serio una famiglia e molti lo sono: Benigno ha assunto anche figli e nipoti di dipendenti, decisi a seguire la tradizione. Ma torniamo alla Cina, alla sua accelerazione negli anni ’90. «Si sono avvalsi di tecnici europei – racconta – nello specifico: italiani. Nel nostro settore l’avevamo intuito prima degli altri, ma nessuno voleva crederci. Ora non possiamo più contrastare la Cina: hanno occupato il mercato. Dobbiamo cambiare rotta». E riecco il Made in Italy. Contenere costi, produrre molto, mantenere la qualità alta. Un gioco d’equilibrio, di incastri. «Facciamo l’equivalente di una Porsche, di una Bmw. Non proprio una Rolls Royce, ecco, ma sempre un prodotto fatto a mano, con stile, unico nel suo genere. E abbiamo un rapporto diretto, quasi quotidiano con i nostri clienti». In questo settore, fiere ed esposizioni internazionali sono la manna dal cielo. «Per questo dobbiamo inserirci nelle vetrine importanti. In Germania, in Giappone, in Spagna. Persino a Miami. I costi sono alti, ma bisogna investire, inviare lì i nostri uomini ad esporre i nostri prodotti, a darci visibilità». La ricetta, secondo Benigno: «Diciamo ai clienti: ci dia un ora del suo tempo con il suo direttore d’acquisto. E così, anche tirandogli un po’ la giacca, abbiamo chiuso un contratto in Giappone». Poi si aiuta con il gergo calcistico: «Marchiamo a uomo, non a zona». Evita polemiche Benigno, anche se «non mi spiego come mai da dieci anni chiediamo di esporre al "Pitti Uomo" senza risultati. Forse le cose cambieranno». E proprio dieci anni fa, ad una giornalista de "la Repubblica", Carlo Benigno confessò: «Quando sento un elicottero della polizia sono contento»...continua

«BORSELLINO ERA UN UOMO COMUNE»

Rita, sorella del magistrato ucciso diciotto anni fa dalla mafia, spiega perché la lotta alla criminalità non ha bisogno di eroi. Ma per contrastare la camorra serve tensione civile


di Mario Tudisco e Mariella Cozzolino


«La morte di Paolo non è stata un evento imprevisto, è stato un assassinio annunciato da tempo. Lui diceva sempre: "Se uccidono Giovanni Falcone, che è il mio scudo, poi elimineranno anche me". E, nonostante il pensiero di Paolo fosse a tutti noto, nessuna autorità volle incrementare le misure precauzionali nei suoi confronti. Ancora oggi, però, mi chiedo: chi poteva conoscere così bene gli spostamenti di mio fratello da ordire un attentato sotto casa di nostra madre, l’unico posto dove, anche a costo di mettere a repentaglio la sua vita, si sarebbe sicuramente recato?». Rita Borsellino (nella foto), oggi eurodeputata, è una signora non più giovanissima, che trasuda dolcezza in ogni atteggiamento e in ogni parola. Potrebbe usare toni più forti contro i mandanti e i killer di suo fratello Paolo, eppure non si scorge risentimento nella sua voce. Piuttosto una duplice preoccupazione: conoscere chi poteva avere reali interessi dalla scomparsa del fratello e, soprattutto, fare in modo che il suo sacrificio divenga esempio per le future generazioni.
Signora Borsellino, quale dei ricordi di suo fratello l’ha maggiormente colpita, dopo diciotto anni dalla barbara strage di via D’Amelio?
In questi anni, tantissime personalità e tantissima gente comune ha avuto apprezzamenti per la memoria di Paolo. Molti di questi erano sicuramente sinceri; altri sono stati avanzati con colpevole ritardo. Detto questo, credo che il miglior complimento che sia stato fatto a mio fratello è quello del suo capo, il giudice Antonino Caponnetto, quando affermò che Paolo Borsellino, prima di amministrare la giustizia, la viveva. Parole che meglio di ogni altro discorso rappresentano ciò che è stato mio fratello. Parole ancora più importanti perché pronunciate da un autentico galantuomo quale era Caponnetto. Se mi permette io preferirei ricordare l’uomo Borsellino, non l’eroico magistrato ucciso perché voleva distruggere Cosa Nostra. Neanche a lui sarebbe piaciuto essere ricordato come un superuomo, in quanto era ben consapevole che, in questo modo, sarebbe stato presto archiviato come una eccezione irripetibile; mentre per sconfiggere le mafie non ci vogliono eroi, ma uomini perbene che facciano il loro dovere.
Come apprese dell’omicidio di suo fratello e degli uomini della scorta?
Come milioni di italiani lo venni a sapere dalla televisione. Mi recai immediatamente in via D’Amelio, sotto casa di nostra madre, e vedendo quei poveri corpi dilaniati, quei quasi cento appartamenti distrutti, gridai forte che lì non ci avrei mai più messo piede. Fu mio figlio a scuotermi, quasi con forza, e a farmi ritornare in me. Non riuscivo neanche a piangere, né ci riesco oggi dopo diciotto anni. Ma in tutto questo tempo ho sempre continuato a chiedermi: chi conosceva così bene gli spostamenti di mio fratello? Perché chi aveva il dovere di proteggerlo non aumentò le misure di sicurezza dopo l’omicidio di Giovanni Falcone? Perché qualcuno si distrasse in un periodo così delicato della nostra storia repubblicana? A volte, per consolarmi, penso che forse era già tutto scritto. Paolo, spesso, mi diceva che lavorava anche diciotto ore al giorno perché il suo tempo stava per finire. Mi auguravo – ma dentro di me sapevo che così non era – che si riferisse al tempo degli atti giudiziari. E, invece, sapeva che stava per terminare il suo tempo terrestre.
Tanti anni dopo, le metastasi mafiose non sono state ancora debellate. Giovanni Falcone diceva che, come tutti i fenomeni umani, Cosa Nostra un giorno sarà azzerata. Intanto la lotta continua…
La lotta alle mafie deve essere innanzitutto un movimento culturale, che abitui tutti a sentire la bellezza del fresco profumo della libertà, che si oppone al puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e quindi della complicità. Solo se un giorno la maggioranza degli italiani condividerà questo messaggio potremmo dire di aver sconfitto i boss e i loro famelici clan. Molto è compito dello Stato, che nel Meridione non è mai riuscito a incidere sul tessuto sociale. Se, infatti, non c’è lavoro e non ci sono prospettive di vita per i nostri giovani è facilissimo che alcuni di loro cadano nella rete degli uomini di Cosa Nostra. Ed è ai giovani che mi rivolgo, è a loro che vorrei far conoscere l’uomo Paolo Borsellino, con tutte le sue debolezze e i suoi difetti, perché lo vedano come un personaggio non irraggiungibile, ma come una persona che ha creduto sempre nel lavoro che svolgeva...continua

venerdì 4 giugno 2010

FEDERALISMO, LA CAMPANIA È IN DEFICIT

Quando entrerà in vigore il nuovo sistema approvato dal Governo in carica, scopriremo un ammanco di circa sette miliardi. I servizi costeranno mille euro in più per famiglia


di Raffaele de Chiara


«Una giornata storica», afferma il Ministro dell’Interno Roberto Maroni nell’aula del Senato mentre l’intero popolo della Lega Nord, ebbro di gioia, festeggia. I numeri della "vittoria leghista": 154 voti a favore, 6 contrari e 87 astenuti, segnano l’introduzione nel nostro ordinamento del federalismo fiscale; era il 22 aprile del 2009. «Il provvedimento farà sì che i soldi delle tasse resteranno sul territorio e nessuno più deciderà a Roma come saranno spesi», dichiarava il capogruppo al Senato Federico Bricolo, distante solo qualche passo dall’ufficio di Rosi Mauro, vicepresidente di Palazzo Madama, dove si degustavano ottimi biscottini colorati di verde. Decisamente più cauto il Pd che, con Marco Follini, faceva notare: «Segnalo ai cultori del federalismo che la sua rigorosa osservanza richiederebbe di partire da quello istituzionale e non da quello fiscale».
Da allora è trascorso un anno, poco o nulla è cambiato, il provvedimento per entrare in vigore necessita dei decreti attuativi del Governo riguardanti l’armonizzazione dei sistemi di calcolo dei bilanci pubblici da emanarsi entro il 2011, ma già ci si interroga su quale possa essere l’impatto sull’economia delle diverse regioni. Nel nostro caso, della Campania.
Secondo l’assessore regionale al Bilancio uscente, Mariano D’Antonio, il federalismo fiscale «potrà essere da stimolo al buon governo, ma nell’immediato sarà senz’altro una medicina molto amara se non indigesta». Seguendo il ragionamento di D’Antonio: «La riforma fiscale farebbe sì che ogni territorio trattenga per la spesa tutte e solo le entrate pubbliche che è capace di alimentare ma, così facendo, nel centro-nord la spesa pubblica balzerebbe verso l’altro e nel Mezzogiorno dovrebbe scendere ancora più in basso, a meno che le entrate pubbliche non aumentino al sud più di quanto è necessario. Nella versione più morbida – argomenta ancora l’economista – il federalismo fiscale manterrebbe qualche redistribuzione delle entrate riscosse al centro-nord perché siano dirottate a finanziare la spesa pubblica nel Mezzogiorno.
Ma a quanto ammonterebbe la redistribuzione e come sarebbe dirottata al sud è materia tutta da esplorare».
Ma qual è lo stato dell’economia della Campania? Siamo in grado di reggere l’impatto brutale con il nuovo sistema? A leggere le cifre c’è davvero poco di cui stare allegri. Attualmente il residuo fiscale, ossia la differenza tra quanto i contribuenti della Regione versano allo Stato e il denaro che torna a Palazzo Santa Lucia per essere utilizzato al servizio della collettività, è in negativo. La Campania versa circa 47 miliardi e ne riceve 53,5, con una differenza di circa sette miliardi.
Non va meglio per il dato pro capite. Ogni contribuente versa ottomila euro e lo Stato ne spende novemila, con una differenza di mille euro per famiglia. È messa peggio della Campania solo la Sicilia, che presenta un passivo di 13 miliardi mentre sette soltanto sono le Regioni che vantano un saldo positivo: tra queste svetta la Lombardia con 38 miliardi... continua