venerdì 5 novembre 2010

«NON SIAMO NOI AD ELEGGERLI»

Sandro Ruotolo, giornalista di “Anno Zero”, traccia il quadro del degrado della politica e del trasformismo elevato a sistema. Ma il Sud non rappresenta un caso particolare


di Pier Paolo De Brasi


Il vecchio male della politica italiana è duro a morire. Centocinquant’anni di unità non lo hanno scalfito, anzi oggi sembra più giovane che mai. Perché il trasformismo ritrova vigore nella politica di questo inizio millennio, ipocrita, malsana, fatta di figuranti che si atteggiano a prime donne. Ne parliamo con il noto giornalista di “Anno Zero” Sandro Ruotolo, tentando di scorgere bagliori di speranza e ottimismo.
Ruotolo, forse la domanda è banale e scontata, ma qual è la differenza tra i trasformisti di ieri e quelli di oggi?
Innanzitutto non siamo noi ad eleggere questi signori. Non ci sono più le preferenze e non ci sono più neanche i partiti, come li abbiamo conosciuti dal dopoguerra in poi. Solo la Lega assomiglia a un partito vecchio stampo, fatto di militanti presenti sul territorio. C’è sempre l’escamotage di dire che si rappresenta il popolo anche in un sistema maggioritario senza preferenze. Ma è chiaro che chi cambia casacca non ha l’impressione di tradire l’elettore. Adesso si aderisce prima al gruppo misto, per poi passare dall’altra parte. È inaccettabile, da un punto di vista etico e morale. Manca la politica con la “p” maiuscola.
Chi cambia casacca spesso è un politico di basso livello. Lo fa anche per uscire dall’anonimato e avere il suo momento di gloria?
Non c’è dubbio. Ma ci sono altri casi di politici di bassa qualità. La Lega ha un ricambio generazionale molto forte. Diventano capigruppo dei signor nessuno che però contano molto sul territorio. Nel Pdl invece, tra veline e massaggiatrici, i parlamentari non contano nulla e votano solo per ratificare ciò che ha deciso il capo. Oggi mancano dei passaggi fondamentali nella vita di un politico giovane, ma che è già arrivato in Parlamento. Non inizi, come si faceva una volta, attaccando i manifesti per strada o partecipando attivamente al congresso e alla vita di sezione. Questo si può trovare solo nella Lega e, in alcune zone, nel Pd.
Il carisma e la personalità di un leader, che si chiami Silvio Berlusconi, Umberto Bossi o chiunque altro, serve per attirare un politico da un partito a un altro?
Detto molto tra virgolette, la Lega è un partito leninista. Presenza assidua sul territorio e leader indiscutibile. Dall’altra parte c’è la figura carismatica e televisiva che ha noia della politica. Berlusconi definisce teatrino della politica la partecipazione e la discussione, anche aspra, che alla fine porta al consenso. La vicenda di Gianfranco Fini è emblematica. Il dissenso non è accettato. Dopodiché, quando la politica diventa lobby, cricca, si sta sempre con chi garantisce di più la casta, chi ti promette la rielezione sicura.
È solo un caso il fatto che, chi cambia partito, il più delle volte proviene dal Sud?
Non farei la semplificazione del meridionale che si schiera con il vincente di turno. Certo, Clemente Mastella è un esempio che racchiude in sé questo concetto, ma il trasformismo è un fenomeno molto più ampio. Ci sono stati anche dei parlamentari del nord che hanno cambiato casacca per scopi di poltrona. Penso a Lamberto Dini e ancora di più a Carlo Giovanardi, che è di Bologna. Al contrario, ciò che sta avvenendo in Sicilia mi sembra abbia una dimensione politica più importante. Da una parte Gianfranco Micciché, che si stacca dal Pdl per andare contro Angelino Alfano e Renato Schifani. Gruppi di dirigenti che, nel momento in cui la politica è meno alta, si fanno la guerra tra di loro. Dall’altra Raffaele Lombardo, i finiani e il laboratorio politico con il Pd...continua

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