giovedì 4 giugno 2009

LA CAMORRA HA FATTO BINGO

La mano dei clan nelle sale scommesse, grazie a una rete imprenditoriale collusa. Gli esercenti onesti costretti a chiudere. Sequestri in tutta Italia


di Marilena Mincione


C’erano i "ragionieri" di zona, che rappresentavano "l’azienda" nei confronti dei clan egemoni sul territorio. C’era il commercialista, fidato collaboratore, con le sue competenze in materia giuridica ed economica. E poi, al vertice, c’era lui, il "Presidente". Tutti facevano parte dei 29 arrestati lo scorso aprile, in seguito alle indagini (un centinaio gli indagati) della Dda di Napoli, dello Scico e del Gico della Guardia di Finanza in un’operazione che ha portato al sequestro di 104 autoveicoli, 39 società commerciali, 23 ditte individuali, 100 immobili, 140 tra quote societarie e rapporti bancari, per un ammontare complessivo di oltre 140 milioni di euro.
Sequestrata anche la società "Betting 2000", e sale Bingo in tutta Italia, tra cui quelle di Lucca, Padova, Cologno Monzese e Teverola (la terza più grande del Paese). Gli investigatori hanno definito "il Presidente", Renato Grasso (latitante) come "poliedrico" nel suo tessere rapporti con le istituzioni, la politica, le forze dell’ordine e i Monopoli di Stato. Ma soprattutto con i clan – del Napoletano, del Casertano, ma anche della mafia pugliese, siciliana e calabrese – di cui era diventato «l’unico soggetto economico di riferimento». In una sorta di "prospettiva rovesciata", Grasso non subiva l’ingerenza della criminalità organizzata, ma la strumentalizzava per la propria crescita imprenditoriale.
Nei fatti, i clan assicuravano (e imponevano) la presenza delle sue macchinette per il gioco (spesso truccate) negli esercizi commerciali del "loro" territorio, ricavando dalla sua ingente disponibilità finanziaria stabili e consistenti guadagni. Così Grasso, relativamente giovane (45 anni) ma già condannato due volte, negli anni ’90, per collusioni con i clan di Portici e Fuorigrotta, attuava un "blocco economico" nei giochi e nelle scommesse in una sorta di "monopolio nazionale"... continua



BIOPOWER, POLITICA E IMPRESE COLLUSE?

La vicenda giudiziaria della centrale a biomasse di Pignataro porta sul banco degli imputati esponenti eccellenti delle istituzioni casertane

di Francesco Falco


Un’inchiesta complessa, che configura reati quali truffa ai danni della Regione Campania, falso, corruzione. Sotto accusa 23 persone, nei confronti delle quali, lo scorso 28 aprile, la Guardia di Finanza, su ordine della procura di Santa Maria Capua Vetere, ha eseguito altrettante ordinanze di custodia cautelare. È l’operazione "Biopower", riguardante l’ormai famosa (e discussa) centrale a biomasse, prevista sul territorio di Pignataro Maggiore. Una centrale pesantemente osteggiata dai comitati ambientalisti e dal consigliere comunale pignatarese, Raimondo Cuccaro. Un’indagine che fa tremare i palazzi della politica casertana: un avviso di garanzia recapitato all’assessore regionale Andrea Cozzolino (atto dovuto per la perquisizione dell’ufficio in Regione), perquisita la casa del sindaco di Pignataro, Giorgio Magliocca; arresti domiciliari per Francesco D’Alonzo, vicepresidente del consiglio comunale di Pignataro. Domiciliari anche per l’assessore provinciale Franco Capobianco (nella foto). I Pm sostengono quanto segue: «Gli imprenditori laziali Renzo Bracciali e Giampiero Tombolillo avevano costituito tre società e, interessati alla costruzione della suddetta centrale, si sarebbero avvalsi di una fitta rete di rapporti di favoritismo e di corruttela con funzionari e amministratori pubblici». Il tutto attraverso una rete di mediatori, di luogotenenti come Tommaso e Giovanni Verazzo, padre e figlio (il primo scarcerato dal riesame), e di funzionari del genio civile di Caserta. La politica, dal canto suo, avrebbe accondisceso alle richieste dell’imprenditoria, mettendosi a disposizione e traendone vantaggio illecito. Vantaggio concretatosi – secondo l’accusa – in tangenti mascherate, nel caso di D’Alonzo (attraverso sponsorizzazioni alla locale squadra di calcio); in assunzioni di persone richieste dall’assessore provinciale Capobianco, grazie alle quali il politico avrebbe «aumentato il proprio consenso elettorale». Il riesame, il 20 maggio, revoca i domiciliari a D’Alonzo. Per quanto riguarda Capobianco, lo stesso gip Paola Cervo (e non, dunque, il riesame) predispone, in data 8 maggio, l’annullamento degli arresti domiciliari. Il provvedimento viene motivato con una lettura, da parte del gip, «alternativa al compendio indiziario dell’ordinanza di custodia cautelare». La documentazione presentata dai legali di Capobianco, infatti, «consente di verificare, in particolare, che l’indagato era impegnato a sostenere lo sviluppo delle fonti di energia alternativa già prima di incontrare Tombolillo». Sarebbe venuto a mancare, dunque, lo scambio formalizzatosi nell’ottenimento di posti di lavoro in favore dell’intervento compiacente dell’assessore provinciale. Con tutte le cautele del caso, visto che il processo non è ancora iniziato... continua

LA TELEVISIONE E LA FORZA DELLE MAFIE

Ecco come i media possono mettere paura al crimine organizzato. Quando non rischiano, loro malgrado, di diventarne addirittura complici


di Loris Mazzetti*


L’informazione ha sempre svolto un ruolo importante nei confronti della criminalità organizzata: illuminare i fatti. Non c’è nulla che dia più fastidio di questo alle mafie.
Quel faro di luce puntato sui mafiosi, camorristi, boss della ’Ndrangheta o della Sacra corona unita e sulle loro attività, li condiziona, ha l’effetto del sole che colpisce il vampiro come nei mitici film con Christopher Lee, li distrugge, li rende polvere, li annulla. Anche loro, come il principe della notte, hanno bisogno delle tenebre, del silenzio per agire sulla vittima, per fare i loro affari. La parola ha una forza enorme, più di un colpo di lupara: si insinua, entra dentro il cervello (Roberto Saviano ne è l’esempio), fa pensare, fa capire, poi può essere diffusa e creare consenso.
Tanti sono i giornalisti che, inseguendo un ideale o la semplice voglia di fare il proprio mestiere, cioè di accendere il famoso faro, si sono giocati la vita, tra questi Peppino Impastato. Il suo omicidio è avvenuto nella notte tra il 9 e il 10 maggio 1978, esattamente trentun’anni fa (venne fatto esplodere sulla linea ferroviaria Palermo-Trapani vicino a Cinisi). Peppino aveva fondato Radio Aut per denunciare e lottare contro don Tano Badalamenti, il capo mafia che da Cinisi dirigeva i suoi affari. Radio Aut cominciò a trasmettere e una voce libera entrò nelle case della gente. Durante la primavera del ’77 accadde un fatto che segnò la condanna a morte di Impastato. Attraverso la radio Peppino denunciò che, il giorno dopo l’approvazione del bilancio comunale (votarono a favore oltre alla Dc anche Pci, Msi, Psi, Pli e la sinistra indipendente), la commissione edilizia diede il suo parere favorevole alla costruzione di un palazzo di cinque piani presentato dal «famigerato Giuseppe Finazzo trascina quacina di Gaetano Badalamenti, viso pallido ed esperto in lupara e traffico d’eroina».
Lo scorso anno, per ricordare Peppino Impastato, un gruppo di giovani fece un corteo che andò da Terrasini, la sede di Radio Aut, fino alla casa di Badalamenti a Cinisi. Il corteo era aperto da uno striscione su cui era scritto: «La mafia uccide il silenzio pure»... continua

*Giornalista, regista e autore Rai