venerdì 2 luglio 2010

«NOI SIAMO USCITI DALLA CRISI»

Lo afferma Carlo Benigno, presidente di Unica, il polo calzaturiero di Carinaro-Teverola che registra una crescita lenta ma costante di commesse. Ecco il nuovo Made in Italy


di Alessandro Cenni


Carlo Benigno, imprenditore, presidente di Unica, non dimentica le sue origini. Nel 1987, i suoi 300 metri quadri d’industria fruttavano 18 miliardi di lire. Più di dieci anni prima, nel ’72, suo padre, con duecentocinquanta dipendenti a regime, aveva intuito la necessità della specializzazione: tagliatore, orlatore, montatore. Ad ognuno il suo. «Fino a quando conoscerai i nomi di tutti loro» gli rammentava il padre «potrai dire di conoscere bene la tua fabbrica». E guai a chiamarli dipendenti, Benigno ci corregge subito: «Ho 40 collaboratori: io mi preoccupo di far star bene loro e loro fanno altrettanto. Loro sono dei veri e propri artisti».
Siamo al Polo Unica di Carinaro. Un consorzio, all’origine, di 24 imprenditori del settore calzaturiero. Trecentomila metri quadrati, un’area divenuta propulsiva per l’affermazione del Made in Italy nel mondo. Ma non ci troviamo nel Varesotto o nel Veneto. Siamo a Carinaro, in Terra di Lavoro. Siamo a 10 chilometri da Casal di Principe. Eppure la crisi, per Carlo Benigno, è acqua passata. «L’abbiamo subita dieci anni fa e ne siamo usciti – ci racconta – come dalla sala di rianimazione: con le ossa rotte, certo. Ma ci siamo evoluti, abbiamo cambiato pelle e ora stiamo investendo».
Ricostruisce l’ultimo ventennio, dall’ascesa nel tessile e nel calzaturiero del "Far East". La chiamiamo Cina, ma l’effetto non cambia: «Nel ’98 si producevano 600 milioni di scarpe. Fatturato? Uguale a quello cinese, che però ne produceva 5 miliardi. La qualità era scarsa, il loro mercato era l’Africa, l’America del sud. Poi l’accelerazione, spaventosa». Passeggiamo tra gli operai al lavoro. Tecnologia e manodopera di qualità, padri di famiglia e catena di montaggio. Molti i giovani, le donne. «Il trend di assunzione è in ascesa. Abbiamo contattato tanti giovani già formati, rimasti senza lavoro per via della crisi» ci spiega. «Altri li abbiamo formati a spese nostre, li abbiamo seguiti noi. Formazione applicata, direttamente sulle macchine. Ci vogliono dieci anni, forse anche di più, per aver un buon artigiano».
Continuiamo il giro, tra gli artigiani al lavoro. Sembrano sul serio una famiglia e molti lo sono: Benigno ha assunto anche figli e nipoti di dipendenti, decisi a seguire la tradizione. Ma torniamo alla Cina, alla sua accelerazione negli anni ’90. «Si sono avvalsi di tecnici europei – racconta – nello specifico: italiani. Nel nostro settore l’avevamo intuito prima degli altri, ma nessuno voleva crederci. Ora non possiamo più contrastare la Cina: hanno occupato il mercato. Dobbiamo cambiare rotta». E riecco il Made in Italy. Contenere costi, produrre molto, mantenere la qualità alta. Un gioco d’equilibrio, di incastri. «Facciamo l’equivalente di una Porsche, di una Bmw. Non proprio una Rolls Royce, ecco, ma sempre un prodotto fatto a mano, con stile, unico nel suo genere. E abbiamo un rapporto diretto, quasi quotidiano con i nostri clienti». In questo settore, fiere ed esposizioni internazionali sono la manna dal cielo. «Per questo dobbiamo inserirci nelle vetrine importanti. In Germania, in Giappone, in Spagna. Persino a Miami. I costi sono alti, ma bisogna investire, inviare lì i nostri uomini ad esporre i nostri prodotti, a darci visibilità». La ricetta, secondo Benigno: «Diciamo ai clienti: ci dia un ora del suo tempo con il suo direttore d’acquisto. E così, anche tirandogli un po’ la giacca, abbiamo chiuso un contratto in Giappone». Poi si aiuta con il gergo calcistico: «Marchiamo a uomo, non a zona». Evita polemiche Benigno, anche se «non mi spiego come mai da dieci anni chiediamo di esporre al "Pitti Uomo" senza risultati. Forse le cose cambieranno». E proprio dieci anni fa, ad una giornalista de "la Repubblica", Carlo Benigno confessò: «Quando sento un elicottero della polizia sono contento»...continua

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