I dati disponibili sulla crescita dell’economia a Napoli e Caserta parlano di lievi incrementi della produzione per il 2011. Ma la disoccupazione continua a crescere
di Mario Del Franco
Mentre gli effetti della disastrosa crisi finanziaria del 2009 tendono finalmente ad un graduale ridimensionamento, con l’economia mondiale in netto miglioramento, trainata dallo sviluppo dei paesi emergenti, e le economie avanzate in maggiore difficoltà, oscillanti tra il 3-4% di crescita nel 2010 della Germania da un lato, e gli 1,3 punti percentuali guadagnati dal Prodotto interno lordo italiano nel corso del medesimo anno, qual è lo stato dell’economia in Campania, e in particolare nelle province di Napoli e Caserta? Sono visibili, come si può dire accada sul piano nazionale, alcuni, sia pur timidi, segnali di ripresa? I dati più recenti circa l’andamento del sistema economico-produttivo della regione campana non sono affatto confortanti: «Il deficit strutturale determinato da una serie di fattori, dalle infrastrutture all’incapacità di utilizzare i fondi europei, a un tessuto produttivo privo di eccellenze – fanno sapere da Confindustria Campania – hanno inciso negativamente sui segnali di ripresa, che ancora tardano a manifestarsi: nel primo trimestre 2011 si è riscontrata un’ulteriore riduzione del Pil regionale dello 0,6% rispetto all’anno precedente, che si accompagna a dati anche maggiormente preoccupanti, come una diminuzione dell’occupazione di ben il 40%, con un tasso di disoccupazione che si attesta intorno al 16,9%».
Per quanto riguarda nel dettaglio le province di Napoli e Caserta, quanto emerge dai Bollettini Statistici elaborati sulla base di dati Istat dall’Istituto Guglielmo Tagliacarne per Unioncamere, in occasione della IX Giornata dell’economia del 6 maggio scorso, non lascia ancora parlare di un’inversione di tendenza rispetto alla spirale recessiva del 2008-2009: anche in questo caso, le gravi criticità strutturali – ad esempio un sistema produttivo caratterizzato dalla predominanza, in particolare per quanto riguarda Caserta, di imprese piccole e poco strutturate; l’ombra della criminalità organizzata, che determina squilibri e distorsioni del mercato; un mercato del lavoro che presenta indicatori di segno perennemente negativo – nel 2010 hanno impedito di agganciare la pur timida ripresa nazionale, con un aumento del Pil soltanto dello 0,4% per Caserta e dello 0,1% per Napoli.
Per quanto concerne le previsioni per il 2011, sembra invece esservi spazio per un cauto ottimismo: a Caserta non si vede ancora una variazione di segno positivo né per il fatturato (-0,1%), né per la produzione (-0,8%), con il settore edile e il terziario in maggiore difficoltà rispetto all’agricoltura e al comparto manifatturiero; a Napoli la situazione è invece leggermente migliore – con un incremento complessivo del fatturato del 2,0% e un calo della produzione dello 0,4% – per tutti i comparti economici tranne il manifatturiero, che lascia registrare ancora un arretramento del 1,2% circa il volume di affari. Moderatamente confrontante, sia per la regione nel suo insieme, sia per la provincia casertana, il dato riguardante gli investimenti: in Campania, secondo Confindustria, «si prevedono stanziamenti di risorse pari all’1,35% per ricerca e sviluppo e al 30,1% per l’innovazione», mentre a Caserta si prevede un aumento complessivo del 2,3%; in controtendenza la provincia di Napoli, per la quale si stima una riduzione degli investimenti dell’1,5%. Sempre drammatico, tuttavia, lo stato dell’occupazione, sia, come già accennato, in Campania, sia per ciascuna delle due province prese in esame: per Caserta e Napoli si prevede ancora un dato di segno negativo, pari rispettivamente a -3,3% e -1,5%...continua
mercoledì 31 agosto 2011
LACRIME E SANGUE PER IL SUD
La manovra finanziaria recentemente varata dal Governo condanna le regioni meridionali a un quadriennio di sacrifici. Stop ai fondi per risanare l’emergenza rifiuti
di Alessandro Pecoraro
Dalle infrastrutture alle politiche per occupazione e formazione; dai bonus per la riduzione dell’Ici al costo per la manutenzione del termovalorizzatore di Acerra; dalla sanità all’edilizia scolastica; dagli ammortizzatori sociali al fondo di garanzia per le piccole e medie imprese, fino all’emergenza rifiuti in Campania. È una manovra finanziaria che qualcuno ha definito «lacrime e sangue» quella approvata quest’estate dal Parlamento italiano. Una manovra che forse salverà l’Italia dalla bancarotta, ma di certo non salverà il Meridione dall’enorme crisi strutturale economico finanziaria. La manovra da 87 miliardi (spalmata in un arco temporale di tre anni e mezzo), prevede in pratica tagli lineari a qualsiasi attività finanziata dallo Stato. Ad essere colpito sarà soprattutto il sud Italia. I tagli maggiori, infatti, riguardano il fondo per le aree sottoutilizzate (Fas) che è stato depauperato di oltre il 10%. Circa 2 miliardi e mezzo di euro in meno che influiranno sicuramente nelle politiche meridionali.
I tagli avranno degli effetti devastanti soprattutto in quei settori in cui le regioni hanno gravi deficit di bilancio.
In Campania, ad esempio, a subire le maggiori conseguenze sarà il settore della sanità. I miliardi di debiti accumulati dalla cattiva gestione della cosa pubblica, uniti al federalismo fiscale e ai tagli ai fondi strutturali, metteranno in ginocchio l’intero sistema sanitario campano. Ma una situazione simile si avrà anche con i rifiuti. Il taglio ai Fas riguarda anche il finanziamento per l’emergenza, un ridimensionamento che produrrà ostacoli per un’eventuale costruzione di nuovi impianti di smaltimento e compostaggio dei rifiuti.
Secondo il presidente della Regione Campania, Stefano Caldoro, per le regioni del Sud, l’impatto della manovra da qui ai prossimi quattro anni sarà insostenibile: «A meno di non ridurre o eliminare del tutto i livelli essenziali delle prestazioni, bisognerà continuare ad intervenire su servizi, sanità, welfare e trasporti pubblici. Siamo alla terza manovra consecutiva che ci impone tagli e correzioni. Per la Campania, al netto del piano di riordino della sanità, sono già previsti 480 milioni di euro in meno e con la nuova manovra ci sarà un’ulteriore inevitabile riduzione dei servizi». È inaccettabile, secondo Caldoro, che l’impronta di tutto il provvedimento sia stata data dalla Lega: «Andavano inserite coperture più coraggiose, anticipando l’innalzamento dell’età pensionabile al primo anno e intervenendo sulle pensioni più ricche, sui consumi con un lieve ritocco all’Iva e introducendo una patrimoniale sui redditi alti: così si sarebbe impedita l’ennesima stangata sulle regioni e gli enti locali, evidentemente questo alla Lega non conveniva»...continua
di Alessandro Pecoraro
Dalle infrastrutture alle politiche per occupazione e formazione; dai bonus per la riduzione dell’Ici al costo per la manutenzione del termovalorizzatore di Acerra; dalla sanità all’edilizia scolastica; dagli ammortizzatori sociali al fondo di garanzia per le piccole e medie imprese, fino all’emergenza rifiuti in Campania. È una manovra finanziaria che qualcuno ha definito «lacrime e sangue» quella approvata quest’estate dal Parlamento italiano. Una manovra che forse salverà l’Italia dalla bancarotta, ma di certo non salverà il Meridione dall’enorme crisi strutturale economico finanziaria. La manovra da 87 miliardi (spalmata in un arco temporale di tre anni e mezzo), prevede in pratica tagli lineari a qualsiasi attività finanziata dallo Stato. Ad essere colpito sarà soprattutto il sud Italia. I tagli maggiori, infatti, riguardano il fondo per le aree sottoutilizzate (Fas) che è stato depauperato di oltre il 10%. Circa 2 miliardi e mezzo di euro in meno che influiranno sicuramente nelle politiche meridionali.
I tagli avranno degli effetti devastanti soprattutto in quei settori in cui le regioni hanno gravi deficit di bilancio.
In Campania, ad esempio, a subire le maggiori conseguenze sarà il settore della sanità. I miliardi di debiti accumulati dalla cattiva gestione della cosa pubblica, uniti al federalismo fiscale e ai tagli ai fondi strutturali, metteranno in ginocchio l’intero sistema sanitario campano. Ma una situazione simile si avrà anche con i rifiuti. Il taglio ai Fas riguarda anche il finanziamento per l’emergenza, un ridimensionamento che produrrà ostacoli per un’eventuale costruzione di nuovi impianti di smaltimento e compostaggio dei rifiuti.
Secondo il presidente della Regione Campania, Stefano Caldoro, per le regioni del Sud, l’impatto della manovra da qui ai prossimi quattro anni sarà insostenibile: «A meno di non ridurre o eliminare del tutto i livelli essenziali delle prestazioni, bisognerà continuare ad intervenire su servizi, sanità, welfare e trasporti pubblici. Siamo alla terza manovra consecutiva che ci impone tagli e correzioni. Per la Campania, al netto del piano di riordino della sanità, sono già previsti 480 milioni di euro in meno e con la nuova manovra ci sarà un’ulteriore inevitabile riduzione dei servizi». È inaccettabile, secondo Caldoro, che l’impronta di tutto il provvedimento sia stata data dalla Lega: «Andavano inserite coperture più coraggiose, anticipando l’innalzamento dell’età pensionabile al primo anno e intervenendo sulle pensioni più ricche, sui consumi con un lieve ritocco all’Iva e introducendo una patrimoniale sui redditi alti: così si sarebbe impedita l’ennesima stangata sulle regioni e gli enti locali, evidentemente questo alla Lega non conveniva»...continua
LE MAFIE CHE NON SI PIEGANO
Sono quelle arroccate nelle amministrazioni e negli enti, dove condizionano la vita della democrazia. E, secondo il giornalista Nello Trocchia, non conoscono confini: dal Piemonte alla Sicilia, attraversano l’intera penisola italiana penetrando nel tessuto economico
di Eliana Iuorio
Incontro con il giornalista Nello Trocchia, autore del bestseller La Peste, pubblicato da Rizzoli, scritto a quattro mani con Tommaso Sodano, attuale vicesindaco e assessore all’Ambiente della giunta De Magistris. È con Federalismo criminale (Nutrimenti editore, 2009) che Trocchia segna il suo debutto in qualità di scrittore, nell’affrontare e analizzare un tema spinoso e quanto mai attuale: le infiltrazioni della camorra nel cuore delle stituzioni locali.
Nel “federalismo criminale”, per il quale parli di “mafie sotto casa”, chi sono le vittime e chi i carnefici?
Sono dell’idea che le vittime siano sicuramente i cittadini; per paradosso, possono anche essere carnefici di se stessi, però nel senso che scelgono liberamente chi votare, a chi affidare le chiavi delle istituzioni e degli enti locali.
Le tangenti e la corruzione dilagante negli enti rappresentano il malcostume che lega la politica all’interesse criminale. Ha visto sciogliersi una Asl in Campania ed una Asp a Reggio Calabria…
Abbiamo avuto il caso dello scioglimento della Asl Napoli 4 nel 2005: la prima Azienda sanitaria locale ad essere azzerata in Italia, e medesima sorte è toccata alla Asp in Calabria. A Napoli, in particolare, nell’Asl Napoli 4, con sede a Pomigliano d’Arco, si evidenziarono i condizionamenti delle famiglie criminali dei Fabbrocino (egemoni nel vesuviano), dei Russo, degli Alfieri, con il solito schema delle ditte che condizionavano quella Azienda sanitaria prestando forniture e servizi (sempre tesi al risparmio economico e al maggior profitto); si andava dalla vigilanza alla mensa alla erogazione di altri tipi di servizi. È la dimostrazione che le organizzazioni mafiose devono essere inevitabilmente intese come strutture che erogano servizi, e che intermediano l’esercizio della democrazia e del diritto tra i cittadini e le istituzioni; non possono essere limitate e confinate alla sola presenza e attività violenta di boss e criminali efferati.
Il caso di Bardonecchia, in Piemonte, è dimostrazione di quanto le mafie possano insediarsi facilmente, ove c’è consenso. Clientele e corrotte operazioni immobiliari. Il Comune è stato sciolto nel ’95. A Barcellona, in Sicilia, invece, la mafia è granitica; tu dici che “non si scioglie”…
Sì, citi due casi che sono rappresentativi del fenomeno: Bardonecchia, in provincia di Torino (sciolto nel ’95), dove egemoni erano la famiglia Lopresti, nel ramo imprenditoriale degli appalti e le famiglie di ’ndrangheta, ivi insediate dagli anni ’70, che controllano soprattutto il movimento terra, i grandi appalti e i subappalti per le grandi opere, come autostrade o ferrovie. Nulla si è fermato e da quello scioglimento in avanti, la ’ndrangheta in particolare, condizionerà molto i Comuni del nord Italia, basti pensare al recente scioglimento di Bordighera, in Liguria. L’altro Comune che citavi, Barcellona Pozzo di Gotto, in provincia di Messina, mai sciolto per infiltrazione mafiosa, apre il grande tema della mafia granitica; cioè, quando dico “mafia”, parlo sempre di rapporti strutturali con il potere politico (naturalmente esiste la politica senza mafia, ma non ci sarà mai una mafia senza politica, senza appoggi politici).
Non è il solo caso di mancato scioglimento; famoso quello di Fondi, ma sono famose anche le tante storie di zone, enti, territori che nonostante i continui arresti e le contiguità dimostrate, siano state risparmiate dalle Commissioni di accesso, da parte della Prefettura e del Ministero dell’Interno. C’è molta sottovalutazione, molto disinteresse al tema dell’intreccio tra mafia e politica. Barcellona ne è sicuramente un esempio, ma è una “linea di governo” che si sta imponendo non solo nelle aree a tradizionale presenza mafiosa, ma anche in altre aree del Paese: colpire militarmente le mafie, mentre si tace degli accordi e dell’intreccio con il potere politico e imprenditoriale...continua
di Eliana Iuorio
Incontro con il giornalista Nello Trocchia, autore del bestseller La Peste, pubblicato da Rizzoli, scritto a quattro mani con Tommaso Sodano, attuale vicesindaco e assessore all’Ambiente della giunta De Magistris. È con Federalismo criminale (Nutrimenti editore, 2009) che Trocchia segna il suo debutto in qualità di scrittore, nell’affrontare e analizzare un tema spinoso e quanto mai attuale: le infiltrazioni della camorra nel cuore delle stituzioni locali.
Nel “federalismo criminale”, per il quale parli di “mafie sotto casa”, chi sono le vittime e chi i carnefici?
Sono dell’idea che le vittime siano sicuramente i cittadini; per paradosso, possono anche essere carnefici di se stessi, però nel senso che scelgono liberamente chi votare, a chi affidare le chiavi delle istituzioni e degli enti locali.
Le tangenti e la corruzione dilagante negli enti rappresentano il malcostume che lega la politica all’interesse criminale. Ha visto sciogliersi una Asl in Campania ed una Asp a Reggio Calabria…
Abbiamo avuto il caso dello scioglimento della Asl Napoli 4 nel 2005: la prima Azienda sanitaria locale ad essere azzerata in Italia, e medesima sorte è toccata alla Asp in Calabria. A Napoli, in particolare, nell’Asl Napoli 4, con sede a Pomigliano d’Arco, si evidenziarono i condizionamenti delle famiglie criminali dei Fabbrocino (egemoni nel vesuviano), dei Russo, degli Alfieri, con il solito schema delle ditte che condizionavano quella Azienda sanitaria prestando forniture e servizi (sempre tesi al risparmio economico e al maggior profitto); si andava dalla vigilanza alla mensa alla erogazione di altri tipi di servizi. È la dimostrazione che le organizzazioni mafiose devono essere inevitabilmente intese come strutture che erogano servizi, e che intermediano l’esercizio della democrazia e del diritto tra i cittadini e le istituzioni; non possono essere limitate e confinate alla sola presenza e attività violenta di boss e criminali efferati.
Il caso di Bardonecchia, in Piemonte, è dimostrazione di quanto le mafie possano insediarsi facilmente, ove c’è consenso. Clientele e corrotte operazioni immobiliari. Il Comune è stato sciolto nel ’95. A Barcellona, in Sicilia, invece, la mafia è granitica; tu dici che “non si scioglie”…
Sì, citi due casi che sono rappresentativi del fenomeno: Bardonecchia, in provincia di Torino (sciolto nel ’95), dove egemoni erano la famiglia Lopresti, nel ramo imprenditoriale degli appalti e le famiglie di ’ndrangheta, ivi insediate dagli anni ’70, che controllano soprattutto il movimento terra, i grandi appalti e i subappalti per le grandi opere, come autostrade o ferrovie. Nulla si è fermato e da quello scioglimento in avanti, la ’ndrangheta in particolare, condizionerà molto i Comuni del nord Italia, basti pensare al recente scioglimento di Bordighera, in Liguria. L’altro Comune che citavi, Barcellona Pozzo di Gotto, in provincia di Messina, mai sciolto per infiltrazione mafiosa, apre il grande tema della mafia granitica; cioè, quando dico “mafia”, parlo sempre di rapporti strutturali con il potere politico (naturalmente esiste la politica senza mafia, ma non ci sarà mai una mafia senza politica, senza appoggi politici).
Non è il solo caso di mancato scioglimento; famoso quello di Fondi, ma sono famose anche le tante storie di zone, enti, territori che nonostante i continui arresti e le contiguità dimostrate, siano state risparmiate dalle Commissioni di accesso, da parte della Prefettura e del Ministero dell’Interno. C’è molta sottovalutazione, molto disinteresse al tema dell’intreccio tra mafia e politica. Barcellona ne è sicuramente un esempio, ma è una “linea di governo” che si sta imponendo non solo nelle aree a tradizionale presenza mafiosa, ma anche in altre aree del Paese: colpire militarmente le mafie, mentre si tace degli accordi e dell’intreccio con il potere politico e imprenditoriale...continua
giovedì 30 giugno 2011
CARO VACANZE, LE RINUNCE DELLE FAMIGLIE
Andare in ferie costa il 4% in più rispetto allo scorso anno: aumentano i last minute e i viaggi in economia. Il ministro tira fuori i Buoni Vacanze, ma pochi vi ricorrono
di Marianna Tavoletta
Secondo il monitoraggio effettuato dall’Onf (Osservatorio nazionale federconsumatori), quest’anno una tradizionale vacanza al mare di una settimana, per una famiglia composta da due adulti e due ragazzi che viaggia in auto, costerà il 4% in più rispetto all’anno scorso. Anche la vacanza da pendolari aumenterà: la stessa famiglia per una giornata al mare spenderà in media 76,20 euro, pari al 12% in più rispetto al 2009, in un parco acquatico il 5% in più. I rincari sono dovuti soprattutto all’aumento del costo dei carburanti (che incidono anche sui costi delle escursioni), dei pedaggi autostradali, ma anche delle spese alimentari e degli stabilimenti balneari. Gli effetti di questi aumenti, che si aggiungono alla crisi economica, emergono da un’indagine dell’Osservatorio Europcar-Doxa, che rivela un aumento della percentuale di coloro che non andranno in vacanza (51%) rispetto a quanti programmano di andarci (49%), come nel 2009. «Il calo delle prenotazioni c’è stato. Ma soprattutto sono cambiate le abitudini: aumentano le persone che aspettano le ultime offerte per prenotare, in passato erano principalmente i giovani ad approfittare dei last minute, oggi anche molte famiglie scelgono di rischiare sperando di poter risparmiare acquistando gli ultimi posti», ci riferisce Serena, tour operator campana. Mentre non sembra riscuotere molto successo il ricorso al credito: «La scorsa stagione sono stati pochissimi i finanziamenti attivati, e per quest’anno non abbiamo avuto ancora nessuna richiesta. Nonostante la comodità di attivare il prestito direttamente in agenzia, le famiglie preferiscono ridurre la durata della vacanza, scegliere mete meno care e periodi di bassa stagione, ma evitare di ricorrere alle finanziarie per le ferie». Un dato in controtendenza rispetto a quello nazionale, che viene interpretato dal presidente di Federconsumatori Campania Rosario Stornaiuolo come sintomo di povertà: «Il ricorso al debito per le vacanze non è diffuso in Campania perché non ci sono le condizioni. Da una nostra ricerca Napoli è risultata una delle città più povere d’Italia, le famiglie che vivono sotto la soglia di povertà sono il 39%, 2 su 4 non hanno i soldi per pagare le bollette, 1 su 4 non può comprare le medicine. Purtroppo sono queste le spese sostenute dal debito delle famiglie, che ricorrono molto più spesso di quanto si pensi anche all’usura, non di certo le vacanze, alle quali in numero sempre maggiore sono costrette a rinunciare».
Proprio per far fronte alla crisi economica, sulla scia degli Chèque-Vacances (nati in Francia nel 1982), l’anno scorso anche in Italia sono stati istituiti i Buoni Vacanze con il decreto del Ministro del Turismo Michela Brambilla. Si tratta di titoli di pagamento nominativi, finalizzati ad acquisire le prestazioni di servizi turistici e del tempo libero, dalla sistemazione alberghiera alla ristorazione, dai trasporti agli affitti di casa vacanze, dall’acquisto di viaggi in agenzia agli autonoleggi, dall’entrata nei musei agli altri servizi culturali....continua
di Marianna Tavoletta
Secondo il monitoraggio effettuato dall’Onf (Osservatorio nazionale federconsumatori), quest’anno una tradizionale vacanza al mare di una settimana, per una famiglia composta da due adulti e due ragazzi che viaggia in auto, costerà il 4% in più rispetto all’anno scorso. Anche la vacanza da pendolari aumenterà: la stessa famiglia per una giornata al mare spenderà in media 76,20 euro, pari al 12% in più rispetto al 2009, in un parco acquatico il 5% in più. I rincari sono dovuti soprattutto all’aumento del costo dei carburanti (che incidono anche sui costi delle escursioni), dei pedaggi autostradali, ma anche delle spese alimentari e degli stabilimenti balneari. Gli effetti di questi aumenti, che si aggiungono alla crisi economica, emergono da un’indagine dell’Osservatorio Europcar-Doxa, che rivela un aumento della percentuale di coloro che non andranno in vacanza (51%) rispetto a quanti programmano di andarci (49%), come nel 2009. «Il calo delle prenotazioni c’è stato. Ma soprattutto sono cambiate le abitudini: aumentano le persone che aspettano le ultime offerte per prenotare, in passato erano principalmente i giovani ad approfittare dei last minute, oggi anche molte famiglie scelgono di rischiare sperando di poter risparmiare acquistando gli ultimi posti», ci riferisce Serena, tour operator campana. Mentre non sembra riscuotere molto successo il ricorso al credito: «La scorsa stagione sono stati pochissimi i finanziamenti attivati, e per quest’anno non abbiamo avuto ancora nessuna richiesta. Nonostante la comodità di attivare il prestito direttamente in agenzia, le famiglie preferiscono ridurre la durata della vacanza, scegliere mete meno care e periodi di bassa stagione, ma evitare di ricorrere alle finanziarie per le ferie». Un dato in controtendenza rispetto a quello nazionale, che viene interpretato dal presidente di Federconsumatori Campania Rosario Stornaiuolo come sintomo di povertà: «Il ricorso al debito per le vacanze non è diffuso in Campania perché non ci sono le condizioni. Da una nostra ricerca Napoli è risultata una delle città più povere d’Italia, le famiglie che vivono sotto la soglia di povertà sono il 39%, 2 su 4 non hanno i soldi per pagare le bollette, 1 su 4 non può comprare le medicine. Purtroppo sono queste le spese sostenute dal debito delle famiglie, che ricorrono molto più spesso di quanto si pensi anche all’usura, non di certo le vacanze, alle quali in numero sempre maggiore sono costrette a rinunciare».
Proprio per far fronte alla crisi economica, sulla scia degli Chèque-Vacances (nati in Francia nel 1982), l’anno scorso anche in Italia sono stati istituiti i Buoni Vacanze con il decreto del Ministro del Turismo Michela Brambilla. Si tratta di titoli di pagamento nominativi, finalizzati ad acquisire le prestazioni di servizi turistici e del tempo libero, dalla sistemazione alberghiera alla ristorazione, dai trasporti agli affitti di casa vacanze, dall’acquisto di viaggi in agenzia agli autonoleggi, dall’entrata nei musei agli altri servizi culturali....continua
DE MAGISTRIS VINCE SENZA POLITICA
Il magistrato ha raccolto la voglia di rivalsa dei napoletani, approfittando di un Pdl poco credibile e di un Pd alla canna del gas. Ora la sfida del governo dei rifiuti
di Antonio Puzzi
«Mo’ammo scassato veramente». E il sistema del bipolarismo con lui a Napoli è crollato sul serio. Luigi De Magistris, 43 anni, ex magistrato ed eurodeputato per Italia dei valori, saluta così la folla arancione accorsa lunedì 30 maggio all’Hotel Royal per celebrarlo come sindaco. «Pare ca avimmo vinciuto ’o scudetto», esultano i leader partenopei di Federazione della Sinistra.
A poche centinaia di metri, il comitato elettorale di Gianni Lettieri non riesce invece a digerire la sconfitta e si domanda come sia possibile che i napoletani abbiano scelto con una maggioranza bulgara (65,38%) l’ex pm delle inchieste “Why not” e “Toghe lucane”, nelle quali furono coinvolti tra gli altri il deputato Udc Lorenzo Cesa e l’allora Guardasigilli Clemente Mastella. Tanto De Magistris quanto Lettieri avevano smarcato la campagna elettorale dai simboli di partito, proprio come alle Regionali 2010.
All’epoca però il carisma di Vincenzo De Luca (oggi riconfermato sindaco di Salerno al primo turno con il 73,75% dei voti) nulla poté contro il successo dell’attuale governatore, Stefano Caldoro. Cos’è cambiato? «In dodici mesi – sostiene il giornalista politico Marzio Di Mezza – il centrodestra ce l’ha messa tutta per perdere a Napoli: dai rifiuti al berlusconismo dilagante. E la città ha reagito». De Magistris ha avuto dalla sua il cosiddetto “voto contro”, anche grazie a una candidatura non entusiasmante imposta al centrodestra dal sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Gianni Letta, incurante delle richieste di ripensamento ricevute da molti dirigenti locali. Il Pd, poi, ripiegando dopo lo scandalo delle primarie sull’ex prefetto Mario Morcone, gli aveva affiancato in campagna elettorale l’ex governatore Antonio Bassolino, perfino a Chiaiano, peggiorando così il già esile bacino di voti. «De Magistris è stato favorito dall’assenza di un Pd credibile – continua Di Mezza –. Il pasticciaccio delle primarie è solo la punta dell’iceberg. E poi il magistrato ha toccato le corde giuste.
È riuscito ad affascinare il popolo, mentre con l’elite aveva già un buon rapporto (basti pensare al sostegno di Erri De Luca, ndr). Ha preso consensi trasversalmente. Anche Mastella con le sue uscite (“Se vince De Magistris mi suicido”, aveva ironizzato a Radio 2, ndr) gli ha fatto guadagnare voti».
L’ex pm si è proposto dunque quale icona di riscatto, come sostiene la giornalista del Corriere del Mezzogiorno, Natascia Festa, paragonandolo addirittura a Barack Obama e suggerendogli implicitamente l’invito a Napoli per il Presidente Usa. «L’Italia è stata screditata a livello internazionale dal nostro premier – spiega lo scrittore Massimo Cacciapuoti –. L’immagine di Napoli sommersa dalla monnezza ha fatto il giro del mondo ma il voto di Napoli ha anche una valenza simbolica diversa: De Magistris viene dalla magistratura, non dalla politica. È il voto della città che si ribella alla camorra e alla politica del malaffare. È la voce gridata di chi vuole giustizia e chiede un impegno serio e deciso dalla parte migliore della società civile che, nonostante i proclami del premier, continua a identificarsi nella magistratura».
Il rifiuto ricevuto qualche mese prima dal centrosinistra (eccezion fatta per il velato appoggio di Umberto Ranieri, grande beffato delle primarie) è divenuto pertanto la carta vincente di De Magistris e la scelta di “non apparentamento” dopo i risultati del primo turno ha fatto il resto....continua
di Antonio Puzzi
«Mo’ammo scassato veramente». E il sistema del bipolarismo con lui a Napoli è crollato sul serio. Luigi De Magistris, 43 anni, ex magistrato ed eurodeputato per Italia dei valori, saluta così la folla arancione accorsa lunedì 30 maggio all’Hotel Royal per celebrarlo come sindaco. «Pare ca avimmo vinciuto ’o scudetto», esultano i leader partenopei di Federazione della Sinistra.
A poche centinaia di metri, il comitato elettorale di Gianni Lettieri non riesce invece a digerire la sconfitta e si domanda come sia possibile che i napoletani abbiano scelto con una maggioranza bulgara (65,38%) l’ex pm delle inchieste “Why not” e “Toghe lucane”, nelle quali furono coinvolti tra gli altri il deputato Udc Lorenzo Cesa e l’allora Guardasigilli Clemente Mastella. Tanto De Magistris quanto Lettieri avevano smarcato la campagna elettorale dai simboli di partito, proprio come alle Regionali 2010.
All’epoca però il carisma di Vincenzo De Luca (oggi riconfermato sindaco di Salerno al primo turno con il 73,75% dei voti) nulla poté contro il successo dell’attuale governatore, Stefano Caldoro. Cos’è cambiato? «In dodici mesi – sostiene il giornalista politico Marzio Di Mezza – il centrodestra ce l’ha messa tutta per perdere a Napoli: dai rifiuti al berlusconismo dilagante. E la città ha reagito». De Magistris ha avuto dalla sua il cosiddetto “voto contro”, anche grazie a una candidatura non entusiasmante imposta al centrodestra dal sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Gianni Letta, incurante delle richieste di ripensamento ricevute da molti dirigenti locali. Il Pd, poi, ripiegando dopo lo scandalo delle primarie sull’ex prefetto Mario Morcone, gli aveva affiancato in campagna elettorale l’ex governatore Antonio Bassolino, perfino a Chiaiano, peggiorando così il già esile bacino di voti. «De Magistris è stato favorito dall’assenza di un Pd credibile – continua Di Mezza –. Il pasticciaccio delle primarie è solo la punta dell’iceberg. E poi il magistrato ha toccato le corde giuste.
È riuscito ad affascinare il popolo, mentre con l’elite aveva già un buon rapporto (basti pensare al sostegno di Erri De Luca, ndr). Ha preso consensi trasversalmente. Anche Mastella con le sue uscite (“Se vince De Magistris mi suicido”, aveva ironizzato a Radio 2, ndr) gli ha fatto guadagnare voti».
L’ex pm si è proposto dunque quale icona di riscatto, come sostiene la giornalista del Corriere del Mezzogiorno, Natascia Festa, paragonandolo addirittura a Barack Obama e suggerendogli implicitamente l’invito a Napoli per il Presidente Usa. «L’Italia è stata screditata a livello internazionale dal nostro premier – spiega lo scrittore Massimo Cacciapuoti –. L’immagine di Napoli sommersa dalla monnezza ha fatto il giro del mondo ma il voto di Napoli ha anche una valenza simbolica diversa: De Magistris viene dalla magistratura, non dalla politica. È il voto della città che si ribella alla camorra e alla politica del malaffare. È la voce gridata di chi vuole giustizia e chiede un impegno serio e deciso dalla parte migliore della società civile che, nonostante i proclami del premier, continua a identificarsi nella magistratura».
Il rifiuto ricevuto qualche mese prima dal centrosinistra (eccezion fatta per il velato appoggio di Umberto Ranieri, grande beffato delle primarie) è divenuto pertanto la carta vincente di De Magistris e la scelta di “non apparentamento” dopo i risultati del primo turno ha fatto il resto....continua
UN CAFFÈ CHE SA DI PULITO
La Rete del Caffè Sospeso combatte contro il monopolio della distribuzione da parte dei clan. In che modo? Incoraggiando le piccole produzioni, magari nate dentro un carcere
di Antonio Puzzi
Dai Setola ai Mallardo, la storia dell’imprenditoria del malaffare in Terra di Lavoro passa per il settore agroalimentare. Negli ultimi anni, si sono moltiplicate le indagini delle forze dell’ordine e le inchieste giornalistiche che hanno portato alla luce fatti spesso noti, ma che le voci del popolo preferivano tacere. Già lo scorso mese “Fresco di Stampa” ha compiuto un viaggio nel mondo del pane “illegale” partendo da Sant’Antimo e analizzando il fenomeno nell’intera area a nord di Napoli con sconfinamenti nell’Agro aversano. Il caso ha voluto che proprio in quei giorni venissero sequestrati al clan dei Polverino oltre un miliardo di euro ottenuti con la distribuzione, forse obbligata, di pane, farine, cereali e carni. Solo dodici mesi fa, invece, l’arresto di Giuseppe Setola aveva messo in chiaro come il Caffè Nobis, una miscela qualitativamente non eccellente prodotta da un’azienda riconducibile secondo le indagini a un bar trentolese, fosse imposta agli esercizi commerciali della provincia di Caserta o comunque distribuita, secondo gli inquirenti, in una maniera non del tutto rispettosa dei crismi della legalità. Di recente, infine, il sequestro dei beni ai Mallardo di Giugliano ha portato a conoscenza delle masse come la stessa trafila riguardasse anche il Caffè Seddio, quasi un monopolio da Castelvolturno al basso Lazio. E con buone probabilità la lista nera dei marchi non è ancora completa.
Importante sottolineare che le accuse non sono state ancora confermate dai processi, ma le indagini iniziate dal 2008 testimoniano un modus operandi tutt’altro che isolato. Per riportare alla luce il valore della legalità in merito al prodotto simbolo di Napoli è nato il progetto di sette festival italiani che si occupano di arti performative e di diritti violati: la Rete del Caffè Sospeso. Ideata in principio per una mutua solidarietà tra le manifestazioni che non godono di grossi sovvenzionamenti pubblici, la Rete ha deciso però di distinguersi, soprattutto nel Napoletano, con una forte azione identitaria. Non a caso, il nome dato al network richiama l’antica pratica, diffusa fino a qualche decennio fa nel capoluogo campano, di entrare in un bar, bere un caffè e pagarne due. Il secondo, per l’appunto “sospeso”, sarebbe stato poi destinato a chi non poteva godere di un bene, se non primario quanto meno simbolico, della civiltà partenopea. Si tratta insomma di un gesto di solidarietà verso un’umanità sconosciuta che si concretizza donando non una necessità, ma la dignità di un piacere.
Maurizio Del Bufalo, coordinatore del Festival del Cinema dei Diritti Umani di Napoli e referente campano della Rete, afferma: «È bene ribadire che nella pratica del Caffè Sospeso non c’è solo solidarietà, ma anche legalità, amicizia, senso della comunità, rispetto dell’altro. Vorremmo soprattutto che questo diventasse un modo in controtendenza di declinare la “napoletanità”, senza sottolineare identità o localismi, ma ribadendo la storia sociale e popolare di una città che non ha mai smesso di ospitare e accogliere, in contrasto con l’atteggiamento sterile di una classe dirigente che stenta moltissimo a rappresentare i bisogni del suo popolo e di una criminalità organizzata che ferocemente si è nutrita di questa distanza». Il funzionamento del meccanismo immobilizzante nella distribuzione dell’oro nero campano ce lo spiega Imma Carpiniello, una delle operatrici della cooperativa Lazzarelle, che offre lavoro alle detenute del carcere femminile di Pozzuoli, per l’appunto producendo caffè: «I grossi monopoli, non sempre direttamente riconducibili ai clan, offrono le attrezzature necessarie ai bar per macinare, preparare e servire il caffè....continua
di Antonio Puzzi
Dai Setola ai Mallardo, la storia dell’imprenditoria del malaffare in Terra di Lavoro passa per il settore agroalimentare. Negli ultimi anni, si sono moltiplicate le indagini delle forze dell’ordine e le inchieste giornalistiche che hanno portato alla luce fatti spesso noti, ma che le voci del popolo preferivano tacere. Già lo scorso mese “Fresco di Stampa” ha compiuto un viaggio nel mondo del pane “illegale” partendo da Sant’Antimo e analizzando il fenomeno nell’intera area a nord di Napoli con sconfinamenti nell’Agro aversano. Il caso ha voluto che proprio in quei giorni venissero sequestrati al clan dei Polverino oltre un miliardo di euro ottenuti con la distribuzione, forse obbligata, di pane, farine, cereali e carni. Solo dodici mesi fa, invece, l’arresto di Giuseppe Setola aveva messo in chiaro come il Caffè Nobis, una miscela qualitativamente non eccellente prodotta da un’azienda riconducibile secondo le indagini a un bar trentolese, fosse imposta agli esercizi commerciali della provincia di Caserta o comunque distribuita, secondo gli inquirenti, in una maniera non del tutto rispettosa dei crismi della legalità. Di recente, infine, il sequestro dei beni ai Mallardo di Giugliano ha portato a conoscenza delle masse come la stessa trafila riguardasse anche il Caffè Seddio, quasi un monopolio da Castelvolturno al basso Lazio. E con buone probabilità la lista nera dei marchi non è ancora completa.
Importante sottolineare che le accuse non sono state ancora confermate dai processi, ma le indagini iniziate dal 2008 testimoniano un modus operandi tutt’altro che isolato. Per riportare alla luce il valore della legalità in merito al prodotto simbolo di Napoli è nato il progetto di sette festival italiani che si occupano di arti performative e di diritti violati: la Rete del Caffè Sospeso. Ideata in principio per una mutua solidarietà tra le manifestazioni che non godono di grossi sovvenzionamenti pubblici, la Rete ha deciso però di distinguersi, soprattutto nel Napoletano, con una forte azione identitaria. Non a caso, il nome dato al network richiama l’antica pratica, diffusa fino a qualche decennio fa nel capoluogo campano, di entrare in un bar, bere un caffè e pagarne due. Il secondo, per l’appunto “sospeso”, sarebbe stato poi destinato a chi non poteva godere di un bene, se non primario quanto meno simbolico, della civiltà partenopea. Si tratta insomma di un gesto di solidarietà verso un’umanità sconosciuta che si concretizza donando non una necessità, ma la dignità di un piacere.
Maurizio Del Bufalo, coordinatore del Festival del Cinema dei Diritti Umani di Napoli e referente campano della Rete, afferma: «È bene ribadire che nella pratica del Caffè Sospeso non c’è solo solidarietà, ma anche legalità, amicizia, senso della comunità, rispetto dell’altro. Vorremmo soprattutto che questo diventasse un modo in controtendenza di declinare la “napoletanità”, senza sottolineare identità o localismi, ma ribadendo la storia sociale e popolare di una città che non ha mai smesso di ospitare e accogliere, in contrasto con l’atteggiamento sterile di una classe dirigente che stenta moltissimo a rappresentare i bisogni del suo popolo e di una criminalità organizzata che ferocemente si è nutrita di questa distanza». Il funzionamento del meccanismo immobilizzante nella distribuzione dell’oro nero campano ce lo spiega Imma Carpiniello, una delle operatrici della cooperativa Lazzarelle, che offre lavoro alle detenute del carcere femminile di Pozzuoli, per l’appunto producendo caffè: «I grossi monopoli, non sempre direttamente riconducibili ai clan, offrono le attrezzature necessarie ai bar per macinare, preparare e servire il caffè....continua
mercoledì 1 giugno 2011
UN’ALTRA BOTTA ALLA CAMORRA. MA BASTERÀ?
L’ennesimo boss è stato arrestato, eppure la criminalità organizzata non sembra arretrare dalla società civile. Il giudice Magi: «Bisogna spezzare la connivenza tra clan e imprese»
di Raffaele de Chiara
«Prima o poi doveva succedere». Il boss della camorra Mario Caterino, sorriso sardonico e modi spicci, ha accolto così gli agenti che lo hanno catturato lo scorso aprile a Casal di Principe. Fatalismo o ennesima provocazione ad uno Stato che, nonostante mieta successi, sembra non vincere mai la sfida contro il crimine organizzato?
Meglio conosciuto come Mario ’a botta, per via della sua passione per gli esplosivi, Caterino, latitante dal 2005, era inserito nell’elenco dei trenta ricercati più pericolosi d’Italia e considerato il boss di camorra più importante dopo Michele Zagaria. Mario ’a botta si nascondeva nell’abitazione di un insospettabile imbianchino della zona.
«È un successo straordinario che stringe il cerchio intorno alla latitanza di Michele Zagaria», è stato il commentato alla cattura del ministro dell’Interno Roberto Maroni. Dello stesso segno anche le dichiarazioni del presidente della Provincia Domenico Zinzi: «È l’ennesimo successo ottenuto grazie all’azione congiunta di forze dell’ordine e magistratura», e del Questore di Caserta Guido Longo, che nel 1998 guidò l’operazione che condusse in carcere Francesco Schiavone detto Sandokan: «Abbiamo dato una bella botta alla cosca dei Casalesi».
Garbato ed estroverso, senza mai tradire la serietà del ruolo che riveste, Raffaello Magi, un magistrato del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere impegnato nella lotta alla criminalità organizzata, parla degli ultimi importanti arresti e delle prospettive per questo territorio. «Mario Caterino era un camorrista della “prima generazione”, che ha sfruttato l’ascesa del clan successiva alla morte di Bardellino. Il boss – dice – è sempre stato molto vicino al gruppo degli Schiavone e negli ultimi anni, come spesso accade, la sua importanza era cresciuta proprio in virtù della latitanza». La cattura di Mario ’a botta rappresenta, secondo il magistrato che fu giudice a latere nel processo Spartacus: «Un fatto molto significativo, in quanto la rete di protezione che si crea intorno a queste persone non può essere impenetrabile. Capacità e impegno da parte delle forze dell’ordine sono poi gli elementi indispensabili per trovare chi si nasconde».
Violenze e connivenza, due elementi imprescindibili per qualsiasi latitanza, un vecchio connubio rivelatosi purtroppo ancora una volta valido. «Il fenomeno camorristico è ormai una realtà “trasversale”, che non si limita a governare i settori tradizionalmente illeciti come ad esempio estorsioni, traffico degli stupefacenti e scommesse clandestine, ma estende la sua influenza anche nei settori nevralgici dell’economia. Gestione del ciclo dei rifiuti, dei mercati dei generi alimentari, della distribuzione delle materie prime e della pubblica amministrazione sono solo alcune delle nuove attività». Il perché di tutto ciò è presto detto: «È la mancanza di un forte senso etico in buona parte dell’imprenditoria e del mondo delle professioni a rendere possibile il “contatto” tra realtà che dovrebbero essere diverse. La logica che domina è quella del profitto ad ogni costo e ciò comporta inevitabilmente l’alterazione della libera concorrenza e della legalità». L’arresto di Antonio Iovine prima e quello di Caterino poi costituiscono l’apice di un impegno da parte dello Stato che, oltre a produrre proclami, è fatto anche di risultati concreti eppure la camorra, vedi la recente crisi dei rifiuti, appare sempre presente e forse potente più di prima; non così però per Magi che respinge con fermezza il paradosso: «Non credo che sia più forte di prima. Molti clan hanno subìto colpi durissimi e si è diffusa l’idea che la repressione esiste. Certo, vi è ancora un livello di connivenza su cui bisogna lavorare in profondità». Diverso il discorso per la piaga dei rifiuti: «La camorra ha approfittato dell’inefficienza della macchina amministrativa per gestire “in concreto” una buona parte del ciclo dello smaltimento. Bisogna creare un nuovo rapporto di fiducia tra la popolazione e chi è chiamato a compiere l’opera di bonifica dei suoli e la raccolta dei rifiuti»...continua
di Raffaele de Chiara
«Prima o poi doveva succedere». Il boss della camorra Mario Caterino, sorriso sardonico e modi spicci, ha accolto così gli agenti che lo hanno catturato lo scorso aprile a Casal di Principe. Fatalismo o ennesima provocazione ad uno Stato che, nonostante mieta successi, sembra non vincere mai la sfida contro il crimine organizzato?
Meglio conosciuto come Mario ’a botta, per via della sua passione per gli esplosivi, Caterino, latitante dal 2005, era inserito nell’elenco dei trenta ricercati più pericolosi d’Italia e considerato il boss di camorra più importante dopo Michele Zagaria. Mario ’a botta si nascondeva nell’abitazione di un insospettabile imbianchino della zona.
«È un successo straordinario che stringe il cerchio intorno alla latitanza di Michele Zagaria», è stato il commentato alla cattura del ministro dell’Interno Roberto Maroni. Dello stesso segno anche le dichiarazioni del presidente della Provincia Domenico Zinzi: «È l’ennesimo successo ottenuto grazie all’azione congiunta di forze dell’ordine e magistratura», e del Questore di Caserta Guido Longo, che nel 1998 guidò l’operazione che condusse in carcere Francesco Schiavone detto Sandokan: «Abbiamo dato una bella botta alla cosca dei Casalesi».
Garbato ed estroverso, senza mai tradire la serietà del ruolo che riveste, Raffaello Magi, un magistrato del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere impegnato nella lotta alla criminalità organizzata, parla degli ultimi importanti arresti e delle prospettive per questo territorio. «Mario Caterino era un camorrista della “prima generazione”, che ha sfruttato l’ascesa del clan successiva alla morte di Bardellino. Il boss – dice – è sempre stato molto vicino al gruppo degli Schiavone e negli ultimi anni, come spesso accade, la sua importanza era cresciuta proprio in virtù della latitanza». La cattura di Mario ’a botta rappresenta, secondo il magistrato che fu giudice a latere nel processo Spartacus: «Un fatto molto significativo, in quanto la rete di protezione che si crea intorno a queste persone non può essere impenetrabile. Capacità e impegno da parte delle forze dell’ordine sono poi gli elementi indispensabili per trovare chi si nasconde».
Violenze e connivenza, due elementi imprescindibili per qualsiasi latitanza, un vecchio connubio rivelatosi purtroppo ancora una volta valido. «Il fenomeno camorristico è ormai una realtà “trasversale”, che non si limita a governare i settori tradizionalmente illeciti come ad esempio estorsioni, traffico degli stupefacenti e scommesse clandestine, ma estende la sua influenza anche nei settori nevralgici dell’economia. Gestione del ciclo dei rifiuti, dei mercati dei generi alimentari, della distribuzione delle materie prime e della pubblica amministrazione sono solo alcune delle nuove attività». Il perché di tutto ciò è presto detto: «È la mancanza di un forte senso etico in buona parte dell’imprenditoria e del mondo delle professioni a rendere possibile il “contatto” tra realtà che dovrebbero essere diverse. La logica che domina è quella del profitto ad ogni costo e ciò comporta inevitabilmente l’alterazione della libera concorrenza e della legalità». L’arresto di Antonio Iovine prima e quello di Caterino poi costituiscono l’apice di un impegno da parte dello Stato che, oltre a produrre proclami, è fatto anche di risultati concreti eppure la camorra, vedi la recente crisi dei rifiuti, appare sempre presente e forse potente più di prima; non così però per Magi che respinge con fermezza il paradosso: «Non credo che sia più forte di prima. Molti clan hanno subìto colpi durissimi e si è diffusa l’idea che la repressione esiste. Certo, vi è ancora un livello di connivenza su cui bisogna lavorare in profondità». Diverso il discorso per la piaga dei rifiuti: «La camorra ha approfittato dell’inefficienza della macchina amministrativa per gestire “in concreto” una buona parte del ciclo dello smaltimento. Bisogna creare un nuovo rapporto di fiducia tra la popolazione e chi è chiamato a compiere l’opera di bonifica dei suoli e la raccolta dei rifiuti»...continua
SE SPARTA PIANGE, ATENE NON RIDE…
Entrambi i partiti a vocazione maggioritaria escono malconci dalla tornata elettorale. Il Pd diventa quasi irrilevante, il Pdl ha perso molti più voti di quelli erosi dai finiani
Alessandro Pecoraro
Una vittoria per le liste civiche, una grande sconfitta per Partito democratico e Popolo della libertà.
Terzo Polo quasi invisibile. Questo il responso delle urne in occasione delle elezioni amministrative, che si sono tenute a maggio, in oltre 40 città delle province di Napoli e Caserta. Elezioni che hanno confermato in modo incontrovertibile la sfiducia dei cittadini campani nei confronti dei due maggiori partiti.
Il centrodestra, dopo aver conquistato Province e Regione, ha avuto difficoltà ad attribuire all’opposizione la colpa dei problemi del territorio, mentre il centrosinistra non è riuscito ancora a riorganizzarsi e, dopo la fine del “ventennio” bassoliniano, è alle prese con un difficilissimo cambio generazionale, non ancora riuscito. L’Italia dei valori (con la sola eccezione di Napoli) e Sinistra e libertà stentano a decollare, fermandosi sotto il 4%, in quasi tutte le città, il Pd continua a perdere consensi.
Le sconfitte elettorali subite negli ultimi due anni non hanno prodotto alcun tipo di cambiamento e così un partito che a livello nazionale è attestato tra il 27 e il 30% dei voti, a Caserta non è riuscito a superare la soglia del 10%, mentre a Napoli è riuscito a malapena a raggiungere il 16%, un risultato che dovrebbe far riflettere i vertici locali e nazionali del partito, soprattutto se si pensa che l’anno scorso, alle elezioni regionali, il Partito democratico ottenne il 15,07% delle preferenze, a Caserta, e il 21,69% a Napoli. Risultati che sembravano aver posto fine al calo dei consensi del Pd campano, ma evidentemente così non è stato.
Gli errori commessi a Napoli prima con Andrea Cozzolino e poi con Mario Morcone, dove il “fuoco amico” di Luigi De Magistris ha colto i coordinatori Enzo Amendola e Andrea Orlando di sorpresa, e il fuggi fuggi generale in Provincia di Caserta, hanno condotto i democratici in un vortice pericoloso. «Il Pd ha subito un forte arretramento e si deve porre il problema della sua rifondazione», ha affermato Orlando subito dopo le elezioni.
«Dobbiamo domandarci perché non abbiamo saputo interpretare il cambiamento e intercettare la domanda che ci facevano i cittadini». Meglio tardi che mai si direbbe, ma purtroppo il fallimento della classe dirigente del Partito democratico era chiaro, nitido e cristallino già da un po’.
Sono molte le cose che mancano, a partire da un reale rinnovamento della classe dirigente, dalla prospettiva a lungo termine e soprattutto dalla lucidità di capire che è inutile continuare a litigare per “comandare”, in un partito che ormai è arrivato ai minimi storici di sempre e, a Caserta, è stato superato anche dall’Udc. Non è un caso che una delle pochissime città della provincia in cui il centrosinistra ha invertito una tendenza negativa che durava da molti anni è Parete, dove il Pd, presentandosi insieme alle altre liste della coalizione sotto un unico simbolo, è riuscito a sconfiggere le liste civiche in appoggio al centrodestra proponendo come candidato Raffaele Vitale, 29 anni e tanta voglia di voltare pagina...continua
Alessandro Pecoraro
Una vittoria per le liste civiche, una grande sconfitta per Partito democratico e Popolo della libertà.
Terzo Polo quasi invisibile. Questo il responso delle urne in occasione delle elezioni amministrative, che si sono tenute a maggio, in oltre 40 città delle province di Napoli e Caserta. Elezioni che hanno confermato in modo incontrovertibile la sfiducia dei cittadini campani nei confronti dei due maggiori partiti.
Il centrodestra, dopo aver conquistato Province e Regione, ha avuto difficoltà ad attribuire all’opposizione la colpa dei problemi del territorio, mentre il centrosinistra non è riuscito ancora a riorganizzarsi e, dopo la fine del “ventennio” bassoliniano, è alle prese con un difficilissimo cambio generazionale, non ancora riuscito. L’Italia dei valori (con la sola eccezione di Napoli) e Sinistra e libertà stentano a decollare, fermandosi sotto il 4%, in quasi tutte le città, il Pd continua a perdere consensi.
Le sconfitte elettorali subite negli ultimi due anni non hanno prodotto alcun tipo di cambiamento e così un partito che a livello nazionale è attestato tra il 27 e il 30% dei voti, a Caserta non è riuscito a superare la soglia del 10%, mentre a Napoli è riuscito a malapena a raggiungere il 16%, un risultato che dovrebbe far riflettere i vertici locali e nazionali del partito, soprattutto se si pensa che l’anno scorso, alle elezioni regionali, il Partito democratico ottenne il 15,07% delle preferenze, a Caserta, e il 21,69% a Napoli. Risultati che sembravano aver posto fine al calo dei consensi del Pd campano, ma evidentemente così non è stato.
Gli errori commessi a Napoli prima con Andrea Cozzolino e poi con Mario Morcone, dove il “fuoco amico” di Luigi De Magistris ha colto i coordinatori Enzo Amendola e Andrea Orlando di sorpresa, e il fuggi fuggi generale in Provincia di Caserta, hanno condotto i democratici in un vortice pericoloso. «Il Pd ha subito un forte arretramento e si deve porre il problema della sua rifondazione», ha affermato Orlando subito dopo le elezioni.
«Dobbiamo domandarci perché non abbiamo saputo interpretare il cambiamento e intercettare la domanda che ci facevano i cittadini». Meglio tardi che mai si direbbe, ma purtroppo il fallimento della classe dirigente del Partito democratico era chiaro, nitido e cristallino già da un po’.
Sono molte le cose che mancano, a partire da un reale rinnovamento della classe dirigente, dalla prospettiva a lungo termine e soprattutto dalla lucidità di capire che è inutile continuare a litigare per “comandare”, in un partito che ormai è arrivato ai minimi storici di sempre e, a Caserta, è stato superato anche dall’Udc. Non è un caso che una delle pochissime città della provincia in cui il centrosinistra ha invertito una tendenza negativa che durava da molti anni è Parete, dove il Pd, presentandosi insieme alle altre liste della coalizione sotto un unico simbolo, è riuscito a sconfiggere le liste civiche in appoggio al centrodestra proponendo come candidato Raffaele Vitale, 29 anni e tanta voglia di voltare pagina...continua
SCUOLA, IL NUOVO ESODO DEI PRECARI
Napoli e Caserta non lasciano nessuna speranza ai tanti docenti in attesa di assunzione. Mentre gli istituti annaspano nella quotidiana lotta per quadrare i conti
di Luisa Smeragliuolo Perrotta
Inizia giugno e iniziano i conti e le trepidazioni dei docenti precari e del personale Ata che, all’inizio del mese, hanno aggiornato la loro posizione nelle graduatorie cosiddette ad esaurimento, per il biennio 2011-2013, trasformato in triennio dal “Decreto sviluppo” del 05/05/2011.
Quanti si saranno traferiti nelle province di Napoli e Caserta dopo aver maturato un buon punteggio in qualche provincia del centro-nord? Quanti avranno un punteggio superiore perché hanno svolto più supplenze oppure hanno lavorato in una scuola paritaria? Senza troppi colpi di scena, è certo che, a conti fatti, quando sarà pubblicata la graduatoria, probabilmente ad agosto, aumenterà il personale precario che Napoli e Caserta avrà dovuto lasciarle. Due province dense per popolazione scolastica, eppure inginocchiate dai tagli, che le hanno particolarmente colpite negli ultimi due anni, riducendo gli organici e affollando le classi.
Per molti precari la scelta di lasciare la Campania è obbligata: il personale Ata e i docenti che nel 2007 avevano deciso di iscriversi in una di queste graduatorie, già di per sé affollatissime, dalle prime manovre del Governo Berlusconi, nel 2008, hanno cominciato a lavorare sempre meno, perdendo ogni speranza nella possibilità di ricevere la stabilità intravista dal piano di immissioni in ruolo del Governo Prodi.
Le province maggiormente gettonate per il trasferimento dei docenti meridionali risultano Milano e Torino e le “intasate”, secondo le statistiche, Roma e Firenze. In Campania sono ancora lunghe le liste di chi attende l’assunzione, dopo aver superato l’ultimo concorso pubblico nella scuola, nel 1999: ogni anno si dovrebbe assorbire il 50% dalle graduatorie del concorso e l’altra metà dalle graduatorie provinciali ad esaurimento, in base ai posti in organico disponibili, ma da due anni le assunzioni sono letteralmente bloccate in tutto il Paese, eccetto per le graduatorie del sostegno e della scuola dell’infanzia, per cui c’è stato un piccolo numero di assunzioni. Quali sono le conseguenze reali sul funzionamento della scuola pubblica negli ultimi due anni? In molte scuole delle province di Napoli e Caserta diverse classi sono state prive di docenti, per settimane o addirittura per mesi, poiché le scuole non avevano soldi per pagare i supplenti (è recente la notizia degli stipendi anticipati ai professori con i soldi versati per le gite in un liceo della Brianza); pochi sono stati i precari pagati con regolarità, ma in generale raccontano di un pagamento procrastinato di mese in mese; quotidianamente è capitato che le classi siano state prive di sorveglianza, quando nemmeno i docenti di ruolo bastavano, con il loro straordinario, a sostituire un docente assentatosi per malattia...continua
di Luisa Smeragliuolo Perrotta
Inizia giugno e iniziano i conti e le trepidazioni dei docenti precari e del personale Ata che, all’inizio del mese, hanno aggiornato la loro posizione nelle graduatorie cosiddette ad esaurimento, per il biennio 2011-2013, trasformato in triennio dal “Decreto sviluppo” del 05/05/2011.
Quanti si saranno traferiti nelle province di Napoli e Caserta dopo aver maturato un buon punteggio in qualche provincia del centro-nord? Quanti avranno un punteggio superiore perché hanno svolto più supplenze oppure hanno lavorato in una scuola paritaria? Senza troppi colpi di scena, è certo che, a conti fatti, quando sarà pubblicata la graduatoria, probabilmente ad agosto, aumenterà il personale precario che Napoli e Caserta avrà dovuto lasciarle. Due province dense per popolazione scolastica, eppure inginocchiate dai tagli, che le hanno particolarmente colpite negli ultimi due anni, riducendo gli organici e affollando le classi.
Per molti precari la scelta di lasciare la Campania è obbligata: il personale Ata e i docenti che nel 2007 avevano deciso di iscriversi in una di queste graduatorie, già di per sé affollatissime, dalle prime manovre del Governo Berlusconi, nel 2008, hanno cominciato a lavorare sempre meno, perdendo ogni speranza nella possibilità di ricevere la stabilità intravista dal piano di immissioni in ruolo del Governo Prodi.
Le province maggiormente gettonate per il trasferimento dei docenti meridionali risultano Milano e Torino e le “intasate”, secondo le statistiche, Roma e Firenze. In Campania sono ancora lunghe le liste di chi attende l’assunzione, dopo aver superato l’ultimo concorso pubblico nella scuola, nel 1999: ogni anno si dovrebbe assorbire il 50% dalle graduatorie del concorso e l’altra metà dalle graduatorie provinciali ad esaurimento, in base ai posti in organico disponibili, ma da due anni le assunzioni sono letteralmente bloccate in tutto il Paese, eccetto per le graduatorie del sostegno e della scuola dell’infanzia, per cui c’è stato un piccolo numero di assunzioni. Quali sono le conseguenze reali sul funzionamento della scuola pubblica negli ultimi due anni? In molte scuole delle province di Napoli e Caserta diverse classi sono state prive di docenti, per settimane o addirittura per mesi, poiché le scuole non avevano soldi per pagare i supplenti (è recente la notizia degli stipendi anticipati ai professori con i soldi versati per le gite in un liceo della Brianza); pochi sono stati i precari pagati con regolarità, ma in generale raccontano di un pagamento procrastinato di mese in mese; quotidianamente è capitato che le classi siano state prive di sorveglianza, quando nemmeno i docenti di ruolo bastavano, con il loro straordinario, a sostituire un docente assentatosi per malattia...continua
venerdì 6 maggio 2011
L'ISOLA INFELICE DEI COMUNI
Stretti tra i tagli di spesa, i vincoli del Patto di stabilità e la scarsa autonomia su materie fondamentali, i primi cittadini lamentano una difficoltà crescente: «A volte siamo soli come cani»
di Mario Del Franco
«È stato proprio nei momenti di maggiore difficoltà, ad esempio durante le numerose crisi dei rifiuti, che io, come sindaco, mi sono davvero sentito solo come un cane». Domenico Ciaramella, da nove anni sindaco di Aversa e membro del comitato direttivo dell’Anci (Associazione nazionale comuni italiani) regionale, riassume con estrema efficacia le condizioni pratiche e politiche in cui si trovano attualmente ad operare in generale gli amministratori locali e, in particolare, i sindaci. Primi cittadini che sono e si sentono sempre più soli, schiacciati dai pesanti tagli delle risorse destinate agli Enti locali e stretti nella morsa dei vincoli finanziari imposti al bilancio dei comuni dal Patto di stabilità di matrice europea.
«È evidente la giustezza e la necessità del Psi (Patto di stabilità interna) in ambito nazionale e sovranazionale – prosegue Ciaramella – ma il rispetto dei parametri previsti da tale Patto si traduce troppo spesso, sul piano locale, in una pressoché totale interdizione dei poteri del sindaco: a causa del tetto di spesa, una giunta comunale, pur avendo i bilanci in ordine, non può decidere lo stanziamento di fondi per potenziare i servizi sociali, i trasporti, o per investire in progetti culturali. Inoltre, il blocco delle assunzioni approvato con l’ultima finanziaria impedisce persino di accrescere l’organico degli uffici comunali laddove lo si ritenga necessario: in tali condizioni è evidente come l’autonomia del primo cittadino nell’amministrazione del proprio comune risulti pesantemente inficiata».
Il peso politico derivante dalle condizioni di difficoltà in cui versano i comuni ricade, inoltre, interamente sugli amministratori, come lamenta Lucio Santarpia, sindaco di Frignano e parimenti membro del comitato direttivo dell’Anci: «Veniamo troppo spesso travolti da decisioni prese ben al di sopra delle nostre teste, nel definire le quali non abbiamo in realtà alcuna voce in capitolo, ma che determinano situazioni di grave disagio nei territori da noi amministrati. Nel far fronte all’annosa questione rifiuti, ad esempio, i singoli comuni campani hanno ristretti margini di autonomia, dovendo necessariamente operare riuniti in consorzi provinciali e secondo le direttive imposte dal Commissariato di Governo: ma quando vi sono cumuli di rifiuti ai bordi delle strade, è naturale che un cittadino tenda a rivolgere la propria indignazione direttamente contro chi amministra la propria città, che deve dunque rispondere di misure adottate da altri»...continua
di Mario Del Franco
«È stato proprio nei momenti di maggiore difficoltà, ad esempio durante le numerose crisi dei rifiuti, che io, come sindaco, mi sono davvero sentito solo come un cane». Domenico Ciaramella, da nove anni sindaco di Aversa e membro del comitato direttivo dell’Anci (Associazione nazionale comuni italiani) regionale, riassume con estrema efficacia le condizioni pratiche e politiche in cui si trovano attualmente ad operare in generale gli amministratori locali e, in particolare, i sindaci. Primi cittadini che sono e si sentono sempre più soli, schiacciati dai pesanti tagli delle risorse destinate agli Enti locali e stretti nella morsa dei vincoli finanziari imposti al bilancio dei comuni dal Patto di stabilità di matrice europea.
«È evidente la giustezza e la necessità del Psi (Patto di stabilità interna) in ambito nazionale e sovranazionale – prosegue Ciaramella – ma il rispetto dei parametri previsti da tale Patto si traduce troppo spesso, sul piano locale, in una pressoché totale interdizione dei poteri del sindaco: a causa del tetto di spesa, una giunta comunale, pur avendo i bilanci in ordine, non può decidere lo stanziamento di fondi per potenziare i servizi sociali, i trasporti, o per investire in progetti culturali. Inoltre, il blocco delle assunzioni approvato con l’ultima finanziaria impedisce persino di accrescere l’organico degli uffici comunali laddove lo si ritenga necessario: in tali condizioni è evidente come l’autonomia del primo cittadino nell’amministrazione del proprio comune risulti pesantemente inficiata».
Il peso politico derivante dalle condizioni di difficoltà in cui versano i comuni ricade, inoltre, interamente sugli amministratori, come lamenta Lucio Santarpia, sindaco di Frignano e parimenti membro del comitato direttivo dell’Anci: «Veniamo troppo spesso travolti da decisioni prese ben al di sopra delle nostre teste, nel definire le quali non abbiamo in realtà alcuna voce in capitolo, ma che determinano situazioni di grave disagio nei territori da noi amministrati. Nel far fronte all’annosa questione rifiuti, ad esempio, i singoli comuni campani hanno ristretti margini di autonomia, dovendo necessariamente operare riuniti in consorzi provinciali e secondo le direttive imposte dal Commissariato di Governo: ma quando vi sono cumuli di rifiuti ai bordi delle strade, è naturale che un cittadino tenda a rivolgere la propria indignazione direttamente contro chi amministra la propria città, che deve dunque rispondere di misure adottate da altri»...continua
GIUSTIZIA LUNGA O NIENTE GIUSTIZIA…
Reazioni opposte, in Campania,sul processo breve, che cancellerebbe con un colpo di spugna i provvedimenti giudiziari contro i “signori dell’immondizia”
di Francesco Falco
Il processo per il rogo alla Thyssenkrupp di Torino, quello per i crolli nel terremoto a L’Aquila, la strage di Viareggio, il crac Parmalat; e poi ancora Calciopoli (la denuncia è del presidente del Tribunale di Napoli, Carlo Alemi, ndr) e chi più ne ha più ne metta, nella lista di procedimenti che hanno negli ultimi anni destato scandalo nell’opinione pubblica.
Alcuni di questi, verosimilmente, non si concluderanno a causa della famigerata “prescrizione breve”, una ghigliottina che potrebbe decapitare il processo ai danni dell’ex governatore Antonio Bassolino e che vede imputati i vertici di Impregilo, quello sul cosiddetto “scandalo rifiuti”. Tommaso Sodano, ex senatore di Rifondazione comunista e autore con Nello Trocchia de La peste, è impegnato da anni con denunce ed esposti proprio sullo scandalo in questione.
«Troncare il processo sui rifiuti – esordisce l’attuale consigliere provinciale di Napoli – avrebbe un impatto devastante: pensiamo ai miliardi di euro sperperati, agli scandali di questi anni, sarebbe davvero una batosta insopportabile. Io, davvero, non ho parole: sono stati anni di lotte e di denunce, la prima sporta nel 2003, e dopo otto anni non avere la possibilità di sapere se queste denunce sono fondate o meno sarebbe una sconfitta per la democrazia, un ulteriore danno per le popolazioni, per l’ambiente e il territorio».
La magistratura ha rappresentato, in questi anni, l’unico potere dello Stato determinato a fare chiarezza sull’affaire rifiuti? «Assolutamente sì – continua Sodano – è stata l’unica frontiera della legalità.
In Italia il fatto che ci sia insoddisfazione per il cattivo funzionamento della magistratura viene addebitato ai magistrati. Mancano i cancellieri, manca la carta, e provano a convincere cittadini che esiste il problema della giustizia, quando c’è invece un’aggressione a un potere dello Stato che vorrebbe riportarci a periodi bui. Peraltro, la richiesta di passare ad altre funzioni, presentata da Giuseppe Noviello e Paolo Sirleo – i due magistrati del processo sui rifiuti – rappresenta un segnale inquietante, se non proprio un segno di cedimento»...continua
di Francesco Falco
Il processo per il rogo alla Thyssenkrupp di Torino, quello per i crolli nel terremoto a L’Aquila, la strage di Viareggio, il crac Parmalat; e poi ancora Calciopoli (la denuncia è del presidente del Tribunale di Napoli, Carlo Alemi, ndr) e chi più ne ha più ne metta, nella lista di procedimenti che hanno negli ultimi anni destato scandalo nell’opinione pubblica.
Alcuni di questi, verosimilmente, non si concluderanno a causa della famigerata “prescrizione breve”, una ghigliottina che potrebbe decapitare il processo ai danni dell’ex governatore Antonio Bassolino e che vede imputati i vertici di Impregilo, quello sul cosiddetto “scandalo rifiuti”. Tommaso Sodano, ex senatore di Rifondazione comunista e autore con Nello Trocchia de La peste, è impegnato da anni con denunce ed esposti proprio sullo scandalo in questione.
«Troncare il processo sui rifiuti – esordisce l’attuale consigliere provinciale di Napoli – avrebbe un impatto devastante: pensiamo ai miliardi di euro sperperati, agli scandali di questi anni, sarebbe davvero una batosta insopportabile. Io, davvero, non ho parole: sono stati anni di lotte e di denunce, la prima sporta nel 2003, e dopo otto anni non avere la possibilità di sapere se queste denunce sono fondate o meno sarebbe una sconfitta per la democrazia, un ulteriore danno per le popolazioni, per l’ambiente e il territorio».
La magistratura ha rappresentato, in questi anni, l’unico potere dello Stato determinato a fare chiarezza sull’affaire rifiuti? «Assolutamente sì – continua Sodano – è stata l’unica frontiera della legalità.
In Italia il fatto che ci sia insoddisfazione per il cattivo funzionamento della magistratura viene addebitato ai magistrati. Mancano i cancellieri, manca la carta, e provano a convincere cittadini che esiste il problema della giustizia, quando c’è invece un’aggressione a un potere dello Stato che vorrebbe riportarci a periodi bui. Peraltro, la richiesta di passare ad altre funzioni, presentata da Giuseppe Noviello e Paolo Sirleo – i due magistrati del processo sui rifiuti – rappresenta un segnale inquietante, se non proprio un segno di cedimento»...continua
TENDE DEL DOLORE E DELLA SPERANZA
Santa Maria Capua Vetere ha accolto con dignità i primi 1200 profughi maghrebini destinati al campo. Ma dopo il primo contingente ne è arrivato un altro. E ora la tendopoli rischia di diventare un presidio permanente
di Stefano Crupi
La strategia sembra essere sempre la stessa: mettere il problema dove nessuno può vederlo, accantonarlo, nasconderlo. Per poi, davanti alle telecamere, vantare successi strepitosi e risultati ineccepibili. Anche nell’affrontare l’emergenza immigrati il governo italiano non si è smentito: segregati nell’ex caserma “Andolfato” di Santa Maria Capua Vetere, i circa 1200 profughi, sbarcati a Lampedusa sulla scia delle sollevazioni popolari che stanno sconvolgendo il nord Africa, sono come scomparsi agli occhi dell’opinione pubblica.
Durante i primi giorni della loro lunga permanenza nella tendopoli, nessuno scambio con l’esterno è stato consentito: persino alla senatrice Anna Maria Carloni, che intendeva sincerarsi sulle condizioni interne del campo, non è stato permesso l’accesso. E per quale ragione? «Disposizioni sanitarie», rispondevano i responsabili.
Col passare dei giorni, però, la scusa delle disposizioni sanitarie non ha retto più: si è capito che il governo stava solo prendendo tempo, alle prese con una discussione al suo interno che rischiava di incrinarne la stabilità. Dopo il voltafaccia di tutti gli altri paesi europei, l’Italia si ritrovava ad affrontare da sola il problema di questa invasione pacifica ed improvvisa, che non poteva certo essere risolta con il «fora de bal» sancito da Umberto Bossi e dalla Lega.
L’allestimento affidato alla Croce Rossa è risultato perfettamente in grado di adattarsi con rapidità all’emergenza: inizialmente predisposto ad accogliere ottocento persone, con cento tende da otto brande ciascuna, è stato ampliato per più della metà nel giro di poche ore. Ai volontari è stata affidata la direzione amministrativa del campo e l’assistenza. «Abbiamo impiegato più di cento persone – dice Francesco Cimmino, referente per la comunicazione della Croce rossa italiana Campania – con quaranta operatori fissi per volta, organizzati in turni. Accogliere un numero maggiore di persone ha comportato solo un adeguamento delle strutture, che in ogni caso eravamo già pronti ad affrontare». L’attività dei volontari è stata quindi tutta tesa a rendere il più confortevole possibile il soggiorno obbligato dei profughi nordafricani: tre pasti al giorno, distribuiti in tre grandi tende capaci di ospitare fino a quattrocento persone, la possibilità di utilizzare bagni allacciati alle fognature e provvisti di docce, visite mediche da parte dei sanitari dell’Asl con due presidi, uno fisso ed uno mobile. Un carico di vestiti contraffatti, sequestrati dalla Guardia di Finanza, è stato destinato ai profughi. «Ad un certo punto – racconta Cimmino – si è sparsa la notizia di cibo avariato distribuito agli immigrati. In realtà si trattava semplicemente di cibo condito con aceto, pietanza che in Tunisia e in Marocco non si è soliti usare.
Tengo a precisare che le persone ospitate e i volontari mangiano esattamente le stesse cose»...continua
di Stefano Crupi
La strategia sembra essere sempre la stessa: mettere il problema dove nessuno può vederlo, accantonarlo, nasconderlo. Per poi, davanti alle telecamere, vantare successi strepitosi e risultati ineccepibili. Anche nell’affrontare l’emergenza immigrati il governo italiano non si è smentito: segregati nell’ex caserma “Andolfato” di Santa Maria Capua Vetere, i circa 1200 profughi, sbarcati a Lampedusa sulla scia delle sollevazioni popolari che stanno sconvolgendo il nord Africa, sono come scomparsi agli occhi dell’opinione pubblica.
Durante i primi giorni della loro lunga permanenza nella tendopoli, nessuno scambio con l’esterno è stato consentito: persino alla senatrice Anna Maria Carloni, che intendeva sincerarsi sulle condizioni interne del campo, non è stato permesso l’accesso. E per quale ragione? «Disposizioni sanitarie», rispondevano i responsabili.
Col passare dei giorni, però, la scusa delle disposizioni sanitarie non ha retto più: si è capito che il governo stava solo prendendo tempo, alle prese con una discussione al suo interno che rischiava di incrinarne la stabilità. Dopo il voltafaccia di tutti gli altri paesi europei, l’Italia si ritrovava ad affrontare da sola il problema di questa invasione pacifica ed improvvisa, che non poteva certo essere risolta con il «fora de bal» sancito da Umberto Bossi e dalla Lega.
L’allestimento affidato alla Croce Rossa è risultato perfettamente in grado di adattarsi con rapidità all’emergenza: inizialmente predisposto ad accogliere ottocento persone, con cento tende da otto brande ciascuna, è stato ampliato per più della metà nel giro di poche ore. Ai volontari è stata affidata la direzione amministrativa del campo e l’assistenza. «Abbiamo impiegato più di cento persone – dice Francesco Cimmino, referente per la comunicazione della Croce rossa italiana Campania – con quaranta operatori fissi per volta, organizzati in turni. Accogliere un numero maggiore di persone ha comportato solo un adeguamento delle strutture, che in ogni caso eravamo già pronti ad affrontare». L’attività dei volontari è stata quindi tutta tesa a rendere il più confortevole possibile il soggiorno obbligato dei profughi nordafricani: tre pasti al giorno, distribuiti in tre grandi tende capaci di ospitare fino a quattrocento persone, la possibilità di utilizzare bagni allacciati alle fognature e provvisti di docce, visite mediche da parte dei sanitari dell’Asl con due presidi, uno fisso ed uno mobile. Un carico di vestiti contraffatti, sequestrati dalla Guardia di Finanza, è stato destinato ai profughi. «Ad un certo punto – racconta Cimmino – si è sparsa la notizia di cibo avariato distribuito agli immigrati. In realtà si trattava semplicemente di cibo condito con aceto, pietanza che in Tunisia e in Marocco non si è soliti usare.
Tengo a precisare che le persone ospitate e i volontari mangiano esattamente le stesse cose»...continua
venerdì 1 aprile 2011
ITALIA UNITA, MA SOLO SULLA CARTA
Dopo centocinquant’anni di storia, il baratro tra Nord e Sud sembra diventato più profondo. Dall’economia al lavoro, dai diritti alla rappresentanza politica il Bel Paese presenta più differenze che continuità. Se non fosse per la criminalità organizzata, che non conosce frontiere
di Raffaele de Chiara
Centocinquant’anni di unità nazionale, eppure il Nord e il Sud dell’Italia continuano a viaggiare su binari paralleli e, spesso, totalmente divergenti.
«Nelle istituzioni, così come nella società, deve crescere la consapevolezza che il divario tra il settentrione ed il meridione debba essere corretto». A lanciare l’allarme, nel 2009, durante la presentazione a Roma del rapporto Svimez (associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno) relativo al 2007 sullo stato dell’economia meridionale, fu Giorgio Napolitano.
Proprio allora il presidente della Repubblica tenne anche a sottolineare come le differenze tra un Nord ricco e sviluppato e un Sud in perenne affanno fossero «un caso unico in Europa».Secondo i dati di quel rapporto le regioni meridionali risentivano di un’economia strutturalmente fragile e non in grado di tenere il passo di quelle settentrionali. A due anni di distanza nulla o quasi è cambiato. Per rendersene conto basta guardare gli ultimi dati pubblicati nel 2010.
Il prodotto interno lordo per ogni singolo abitante delle regioni del Sud è di 17.317 euro, pari al 58,8% del Centro-Nord, dove si registra invece 29.449 euro ciascuno. Su base regionale la Campania, con una diminuzione del 5,4%, è la seconda regione del meridione dopo l’Abruzzo, che ha fatto segnare un maggiore abbassamento del Pil.
Non va meglio se si analizzano i singoli settori: dall’agricoltura all’industria passando per il terziario, le regioni meridionali rispetto a quelle del Nord registrano un gap costante mai del tutto colmato. Emblematiche le conclusioni del rapporto: «Nel periodo 2000-2008 il Mezzogiorno è cresciuto la metà del Centro-Nord. Dal dopoguerra non si era mai verificata una così lunga interruzione del processo di crescita tra le due aree.
La forte contrapposizione tra Nord e Sud oggi rischia di allargare il divario e ostacola la ripresa economica nazionale». Divisi in ambito economico, non va certo meglio in politica dove la presenza di ministri meridionali nelle poltrone che contano è davvero scarsa, se non inesistente. I tempi in cui nei palazzi del potere sedevano, a cavallo degli anni ’80 e ’90, i vari Ciriaco De Mita, Paolo Cirino Pomicino prima e Antonio Bassolino poi, rispettivamente presidente del Consiglio, ministro del Bilancio e del Lavoro, sono lontani. Fatta eccezione per uno sparuto nugolo di ministri senza portafoglio – Mara Carfagna alle Pari Opportunità, Gianfranco Rotondi all’Attuazione del programma di Governo ed Elio Vito ai Rapporti con il Parlamento – la Campania ed il Sud sono totalmente assenti dalla compagine governativa.
Un’Italia unita soltanto sulla cartina geografica è una percezione non solo degli italiani, ma anche dei cittadini stranieri che in Italia ci vivono soltanto per periodi medio-lunghi. Secondo un’indagine condotta da Intercultura, ben il 76,5% degli studenti stranieri che si trovano nel nostro Paese per motivi di studio dicono che l’Italia è in realtà una nazione divisa tra il Nord e il Sud. Gli elementi di differenziazione sono quelli tipici dei luoghi comuni: ritmi frenetici, freddezza nei rapporti umani e ricchezza al Nord, tranquillità e maggiore disponibilità al dialogo nelle regioni meridionali...continua
di Raffaele de Chiara
Centocinquant’anni di unità nazionale, eppure il Nord e il Sud dell’Italia continuano a viaggiare su binari paralleli e, spesso, totalmente divergenti.
«Nelle istituzioni, così come nella società, deve crescere la consapevolezza che il divario tra il settentrione ed il meridione debba essere corretto». A lanciare l’allarme, nel 2009, durante la presentazione a Roma del rapporto Svimez (associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno) relativo al 2007 sullo stato dell’economia meridionale, fu Giorgio Napolitano.
Proprio allora il presidente della Repubblica tenne anche a sottolineare come le differenze tra un Nord ricco e sviluppato e un Sud in perenne affanno fossero «un caso unico in Europa».Secondo i dati di quel rapporto le regioni meridionali risentivano di un’economia strutturalmente fragile e non in grado di tenere il passo di quelle settentrionali. A due anni di distanza nulla o quasi è cambiato. Per rendersene conto basta guardare gli ultimi dati pubblicati nel 2010.
Il prodotto interno lordo per ogni singolo abitante delle regioni del Sud è di 17.317 euro, pari al 58,8% del Centro-Nord, dove si registra invece 29.449 euro ciascuno. Su base regionale la Campania, con una diminuzione del 5,4%, è la seconda regione del meridione dopo l’Abruzzo, che ha fatto segnare un maggiore abbassamento del Pil.
Non va meglio se si analizzano i singoli settori: dall’agricoltura all’industria passando per il terziario, le regioni meridionali rispetto a quelle del Nord registrano un gap costante mai del tutto colmato. Emblematiche le conclusioni del rapporto: «Nel periodo 2000-2008 il Mezzogiorno è cresciuto la metà del Centro-Nord. Dal dopoguerra non si era mai verificata una così lunga interruzione del processo di crescita tra le due aree.
La forte contrapposizione tra Nord e Sud oggi rischia di allargare il divario e ostacola la ripresa economica nazionale». Divisi in ambito economico, non va certo meglio in politica dove la presenza di ministri meridionali nelle poltrone che contano è davvero scarsa, se non inesistente. I tempi in cui nei palazzi del potere sedevano, a cavallo degli anni ’80 e ’90, i vari Ciriaco De Mita, Paolo Cirino Pomicino prima e Antonio Bassolino poi, rispettivamente presidente del Consiglio, ministro del Bilancio e del Lavoro, sono lontani. Fatta eccezione per uno sparuto nugolo di ministri senza portafoglio – Mara Carfagna alle Pari Opportunità, Gianfranco Rotondi all’Attuazione del programma di Governo ed Elio Vito ai Rapporti con il Parlamento – la Campania ed il Sud sono totalmente assenti dalla compagine governativa.
Un’Italia unita soltanto sulla cartina geografica è una percezione non solo degli italiani, ma anche dei cittadini stranieri che in Italia ci vivono soltanto per periodi medio-lunghi. Secondo un’indagine condotta da Intercultura, ben il 76,5% degli studenti stranieri che si trovano nel nostro Paese per motivi di studio dicono che l’Italia è in realtà una nazione divisa tra il Nord e il Sud. Gli elementi di differenziazione sono quelli tipici dei luoghi comuni: ritmi frenetici, freddezza nei rapporti umani e ricchezza al Nord, tranquillità e maggiore disponibilità al dialogo nelle regioni meridionali...continua
TUTTI IN CORSA PER NAPOLI
Nove candidati in lizza per lo scranno più alto di palazzo San Giacomo. In provincia, intanto, si sfidano vecchi e i giovani politici
di Antonio Puzzi
Il tanto auspicato bipolarismo, per Napoli, è solo un sogno. Tutto ha avuto inizio col “pasticciaccio” delle primarie e adesso sono ben nove i candidati, quattro a sinistra, tre a destra e due al centro che, salvo ripensamenti, si contenderanno, a maggio, la poltrona di primo cittadino del capoluogo campano.
«Con il suo fare, il Pd ha assunto i classici comportamenti di chi ritiene una partita già persa – ha sostenuto Fausto Corace, segretario regionale del Psi, ritenuto da più parti uno dei massimi esperti di politica napoletana – ma anche il centrodestra non può vantare con Gianni Lettieri una scelta vincente.
L’ex presidente dell’Unione Industriali ha già spaccato il suo mondo, ma l’investitura è arrivata direttamente da Gianni Letta e così a nulla sono valse le critiche sprezzanti della sua stessa parte politica». Vana è stata la lettera firmata da trentanove iscritti al partito per chiedere a Silvio Berlusconi un ripensamento. A tentare di cavalcare l’onda di tale dissenso giunge però Clemente Mastella che, nel ribadire la sua candidatura per i Popolari, ha definito “guasconi” gli atteggiamenti del Pdl: «Non credo – ha asserito – ci siano le condizioni numeriche e politiche affinché Lettieri possa vincere al primo turno». Per attirare l’attenzione su di sé, l’ex sindaco di Ceppaloni ha proposto a Fabio Cannavaro e Ciro Ferrara di fare parte della sua improbabile giunta. Non è il solo, però, in quanto anche Lettieri, che promette che i suoi consiglieri doneranno ai poveri il compenso previsto, corteggia Cannavaro come assessore.
Il Pd ha invece deciso di puntare sull’ex prefetto Mario Morcone, il quale, ha spiegato Corace, «sarebbe stato indicato da Carlo Borgomeo (presidente Fondazione Sud, ndr), al quale Pierluigi Bersani aveva chiesto invano di candidarsi». Di certo, il centrosinistra punta sulla quantità. Oltre a Morcone, appoggiato anche da Sinistra e libertà in seguito a un referendum, ci saranno infatti Luigi De Magistris, sostenuto da Idv, Federazione della Sinistra e, secondo alcuni, dal “popolo reale” dei vendoliani, Roberto Fico per il Movimento 5 Stelle e Raffaele Di Monda, che con il Pin (Progetto innovazione per Napoli) promette: «Affiderò a un netturbino la gestione del problema rifiuti».
Il neonato terzo polo punta, invece, sul rettore dell’Università degli Studi di Salerno, Raimondo Pasquino, appoggiato anche dai socialisti. «Andrea Cozzolino ora si è schierato a favore di Morcone – ha dichiarato Corace – mentre Umberto Ranieri va verso Pasquino, sebbene la sua sarà una scelta difficile: fare una cosa diversa dal partito o continuare a lavorare con esso?». Arrivano, poi, nelle ultime ore, la candidatura dell’avvocato Carlo Taormina con i liberali di Lega Italia e la promessa di un nuovo nome avanzata da Mpa...continua
di Antonio Puzzi
Il tanto auspicato bipolarismo, per Napoli, è solo un sogno. Tutto ha avuto inizio col “pasticciaccio” delle primarie e adesso sono ben nove i candidati, quattro a sinistra, tre a destra e due al centro che, salvo ripensamenti, si contenderanno, a maggio, la poltrona di primo cittadino del capoluogo campano.
«Con il suo fare, il Pd ha assunto i classici comportamenti di chi ritiene una partita già persa – ha sostenuto Fausto Corace, segretario regionale del Psi, ritenuto da più parti uno dei massimi esperti di politica napoletana – ma anche il centrodestra non può vantare con Gianni Lettieri una scelta vincente.
L’ex presidente dell’Unione Industriali ha già spaccato il suo mondo, ma l’investitura è arrivata direttamente da Gianni Letta e così a nulla sono valse le critiche sprezzanti della sua stessa parte politica». Vana è stata la lettera firmata da trentanove iscritti al partito per chiedere a Silvio Berlusconi un ripensamento. A tentare di cavalcare l’onda di tale dissenso giunge però Clemente Mastella che, nel ribadire la sua candidatura per i Popolari, ha definito “guasconi” gli atteggiamenti del Pdl: «Non credo – ha asserito – ci siano le condizioni numeriche e politiche affinché Lettieri possa vincere al primo turno». Per attirare l’attenzione su di sé, l’ex sindaco di Ceppaloni ha proposto a Fabio Cannavaro e Ciro Ferrara di fare parte della sua improbabile giunta. Non è il solo, però, in quanto anche Lettieri, che promette che i suoi consiglieri doneranno ai poveri il compenso previsto, corteggia Cannavaro come assessore.
Il Pd ha invece deciso di puntare sull’ex prefetto Mario Morcone, il quale, ha spiegato Corace, «sarebbe stato indicato da Carlo Borgomeo (presidente Fondazione Sud, ndr), al quale Pierluigi Bersani aveva chiesto invano di candidarsi». Di certo, il centrosinistra punta sulla quantità. Oltre a Morcone, appoggiato anche da Sinistra e libertà in seguito a un referendum, ci saranno infatti Luigi De Magistris, sostenuto da Idv, Federazione della Sinistra e, secondo alcuni, dal “popolo reale” dei vendoliani, Roberto Fico per il Movimento 5 Stelle e Raffaele Di Monda, che con il Pin (Progetto innovazione per Napoli) promette: «Affiderò a un netturbino la gestione del problema rifiuti».
Il neonato terzo polo punta, invece, sul rettore dell’Università degli Studi di Salerno, Raimondo Pasquino, appoggiato anche dai socialisti. «Andrea Cozzolino ora si è schierato a favore di Morcone – ha dichiarato Corace – mentre Umberto Ranieri va verso Pasquino, sebbene la sua sarà una scelta difficile: fare una cosa diversa dal partito o continuare a lavorare con esso?». Arrivano, poi, nelle ultime ore, la candidatura dell’avvocato Carlo Taormina con i liberali di Lega Italia e la promessa di un nuovo nome avanzata da Mpa...continua
FIAT, L’INDOTTO ASPETTA E SPERA
Johnson Controls, Ergom, Proma,Tower e tante altre fabbriche che ruotano attorno allo stabilimento di Pomigliano vivono la transizione difficile del settore auto
di Alessandro Dorelli
Si scrive Fabbrica Italia Pomigliano, si legge progetto Nuova Panda. Nuovo stabilimento, o meglio stabilimento messo a nuovo, e nuova produzione che mette alla porta quella tradizionale dell’Alfa Romeo, che qui a Pomigliano d’Arco ha segnato la storia, non solo industriale, di un’intera cittadina.
Dopo mesi di aspri dibattiti, che hanno visto sgretolarsi il fronte sindacale e modificare gli stessi rapporti tra industriali, partono le prime assunzioni nell’ex stabilimento Giambattista Vico. Di pari passo, però, si materializzano all’orizzonte i primi dubbi su quale sarà la ricaduta sull’indotto Fiat, ossia su quel consistente numero di piccole e medie aziende che hanno proliferato in tutta la Campania, trainate dalle produzioni targate Alfa. Aziende che impiegano migliaia di lavoratori, quasi tutti interessati dalle varie forme di ammortizzatori sociali negli ultimi quattro anni. Lo start al progetto dell’amministratore delegato Sergio Marchionne è stato dato lo scorso 7 marzo, con il passaggio di 4 capi delle Ute, 3 tecnici e un gestore operativo da Fiat Group Automobiles alla newco Fabbrica Italia Pomigliano. Neoassunti che andranno ad affiancare Sebastiano Garofalo, passato da direttore di stabilimento ad amministratore delegato della nuova società, noto per la produzione e distribuzione di un discusso dvd, che invitava gli operai dello stabilimento partenopeo ad accettare i termini dell’accordo proposto da Fiat.
Nelle loro mani la fase iniziale del progetto: il completamento dei lavori all’impianto di lastratura e alla catena di montaggio. Contemporaneamente sul fronte indotto l’effetto domino si avverte immediatamente. Fra le prime a muoversi, due colossi dell’apparato produttivo che ruota intorno il sito napoletano: Johnson Controls e Ergom. Entrambe specializzate nella componentistica auto e nella lavorazione delle materie plastiche. Johnson Controls, 169 operai in cassa integrazione da circa otto anni nello stabilimento di Rocca d’Evandro e circa 180 in quello di Cicerale (Salerno), ha annunciato da subito un investimento di circa 2 milioni di euro da completare entro giugno e una leggera modifica alla dislocazione produttiva fra i due stabilimenti. Investimenti che dovrebbero permettere il riassorbimento dei lavoratori della multinazionale a stelle e strisce entro il 2012, anno in cui la newco produrrà 240mila Nuova Panda.
Altro discorso per i dipendenti della Ergom. Circa 1000 lavoratori nelle tre sedi presenti fra Caserta e Napoli, secondo un accordo stilato con la stessa Fiat prima della crisi avrebbero dovuto essere assunti dallo stabilimento di Pomigliano. Ora almeno per 500 di loro potrebbe non esserci più posto e lo stabilimento di Marcianise dovrebbe essere accorpato a Napoli. Nella stessa situazione di incertezza versa gran parte dell’indotto Fiat.
Ai due esempi, che rappresentano solo gli estremi delle reazioni che il processo Fabbrica Italia Pomigliano potrà innescare, si affiancano molte realtà industriali che ancora navigano a vista. Due i fattori fondamentali del nuovo piano industriale torinese che creano scompiglio nell’indotto: la risposta del mercato ai volumi di produzione fissati da Marchionne e il passaggio da una produzione di alto livello ad una di livello medio/basso. Fornire interni, rifiniture o componentistica per Alfa 159, Giulietta o Mito non è lo stesso che fornire i medesimi prodotti per la Nuova Panda, ma nonostante questo i giudizi sui livelli produttivi e lavorativi non sono univoci....continua
di Alessandro Dorelli
Si scrive Fabbrica Italia Pomigliano, si legge progetto Nuova Panda. Nuovo stabilimento, o meglio stabilimento messo a nuovo, e nuova produzione che mette alla porta quella tradizionale dell’Alfa Romeo, che qui a Pomigliano d’Arco ha segnato la storia, non solo industriale, di un’intera cittadina.
Dopo mesi di aspri dibattiti, che hanno visto sgretolarsi il fronte sindacale e modificare gli stessi rapporti tra industriali, partono le prime assunzioni nell’ex stabilimento Giambattista Vico. Di pari passo, però, si materializzano all’orizzonte i primi dubbi su quale sarà la ricaduta sull’indotto Fiat, ossia su quel consistente numero di piccole e medie aziende che hanno proliferato in tutta la Campania, trainate dalle produzioni targate Alfa. Aziende che impiegano migliaia di lavoratori, quasi tutti interessati dalle varie forme di ammortizzatori sociali negli ultimi quattro anni. Lo start al progetto dell’amministratore delegato Sergio Marchionne è stato dato lo scorso 7 marzo, con il passaggio di 4 capi delle Ute, 3 tecnici e un gestore operativo da Fiat Group Automobiles alla newco Fabbrica Italia Pomigliano. Neoassunti che andranno ad affiancare Sebastiano Garofalo, passato da direttore di stabilimento ad amministratore delegato della nuova società, noto per la produzione e distribuzione di un discusso dvd, che invitava gli operai dello stabilimento partenopeo ad accettare i termini dell’accordo proposto da Fiat.
Nelle loro mani la fase iniziale del progetto: il completamento dei lavori all’impianto di lastratura e alla catena di montaggio. Contemporaneamente sul fronte indotto l’effetto domino si avverte immediatamente. Fra le prime a muoversi, due colossi dell’apparato produttivo che ruota intorno il sito napoletano: Johnson Controls e Ergom. Entrambe specializzate nella componentistica auto e nella lavorazione delle materie plastiche. Johnson Controls, 169 operai in cassa integrazione da circa otto anni nello stabilimento di Rocca d’Evandro e circa 180 in quello di Cicerale (Salerno), ha annunciato da subito un investimento di circa 2 milioni di euro da completare entro giugno e una leggera modifica alla dislocazione produttiva fra i due stabilimenti. Investimenti che dovrebbero permettere il riassorbimento dei lavoratori della multinazionale a stelle e strisce entro il 2012, anno in cui la newco produrrà 240mila Nuova Panda.
Altro discorso per i dipendenti della Ergom. Circa 1000 lavoratori nelle tre sedi presenti fra Caserta e Napoli, secondo un accordo stilato con la stessa Fiat prima della crisi avrebbero dovuto essere assunti dallo stabilimento di Pomigliano. Ora almeno per 500 di loro potrebbe non esserci più posto e lo stabilimento di Marcianise dovrebbe essere accorpato a Napoli. Nella stessa situazione di incertezza versa gran parte dell’indotto Fiat.
Ai due esempi, che rappresentano solo gli estremi delle reazioni che il processo Fabbrica Italia Pomigliano potrà innescare, si affiancano molte realtà industriali che ancora navigano a vista. Due i fattori fondamentali del nuovo piano industriale torinese che creano scompiglio nell’indotto: la risposta del mercato ai volumi di produzione fissati da Marchionne e il passaggio da una produzione di alto livello ad una di livello medio/basso. Fornire interni, rifiniture o componentistica per Alfa 159, Giulietta o Mito non è lo stesso che fornire i medesimi prodotti per la Nuova Panda, ma nonostante questo i giudizi sui livelli produttivi e lavorativi non sono univoci....continua
venerdì 4 marzo 2011
«LE RAGAZZE DEL PAPI, UN PRODOTTO CAMPANO»
Claudio Pappaianni, giornalista de “L’Espresso” e autore di un libro sui sexy-scandali del premier, racconta la parabola delle “miracolate” napoletane: da Francesca Pascale a Emanuela Romano, da Giovanna Del Giudice alla “braciulona” Virna Bello
di Alessandro Cenni
Un filo rosso unisce il “Casoria gate” al “Ruby gate” ed è incastrato tra le rocce del Vesuvio. Scandalo, caso giudiziario: Napoli ricorre incessante, tanto nei luoghi quanto nelle protagoniste. Facciamo il punto con Claudio Pappaianni, giornalista de “L’Espresso”, vincitore del concorso internazionale “Giornalisti del Mediterraneo” e coautore, insieme a Peter Gomez, Marco Lillo e Marco Travaglio, del libro Papi. Uno scandalo politico, edizioni Chiarelettere.
Pappaianni, Napoli è una parola chiave negli scandali del premier?
È sicuramente uno snodo importante, se non altro perché il “Papi gate”, dal punto di vista mediatico, parte da lì, dalla festa di 18 anni di Noemi Letizia a Casoria. Veronica Lario decide di rompere il suo matrimonio con Silvio Berlusconi, l’Italia distratta scopre che è governata da un uomo che trascorre serate circondato da decine donne, molte delle quali sono escort di professione. Tutto, dopo la bella intervista di Angelo Agrippa del “Corriere del Mezzogiorno” alla ragazza di Portici che ci fa scoprire che Silvio Berlusconi, nel suo harem, si fa chiamare “Papi”. Un’intervista, quella, che letta oggi è ancora più inquietante: è dettata da una grande ingenuità di Noemi o ricca di messaggi in codici?
Che intende?
Intanto, Noemi è la prima che parla di “Bunga Bunga”, raccontandola come una delle barzellette preferite dal premier (illuminante ed educativa, per una ragazza di 17 anni). Poi, dopo aver raccontato della «scrivania del premier sommersa dalle carte», conclude di voler entrare in politica: «Ci penserà Papi Silvio», disse.
Tutto ha inizio nel 2008?
Il fenomeno delle “Papi girls” è certamente precedente: Berlusconi conosce Francesca Pascale, per esempio, sul finire del 2006, per poi ospitarla in una cena privata sul suo aereo personale dopo una manifestazione a Piazza del Plebiscito a Napoli. Ma i festini circondato da decine di belle donne non sono certo una novità per Berlusconi: nel 1986, stando ad un’intercettazione che abbiamo inserito nel libro, si preparava a festeggiare il Capodanno assieme a Bettino Craxi, in compagnia delle showgirl del “Drive in”. Era l’era Craxi, l’epoca di “nani e ballerine”. Ora ci sono “nani e veline”.
Cos’è cambiato da allora?
Che le “Papi girls” le paghiamo noi. Berlusconi può piazzare una velina di periferia come Francesca Pascale, una che si esibiva su “Telecafone”, in politica. La Pascale è consigliere provinciale, cioè ha un ruolo istituzionale. E così Virna Bello, una Pr di provincia nota come “la braciulona” e anche lei nel gruppo della Pascale, il comitato “Silvio ci manchi”, finita col diventare assessore a Torre del Greco.
Oppure Emanuela Romano, che è stata certamente a Villa Certosa, ora assessore ai Servizi sociali a Castellamare di Stabia. C’è poi Giovanna Del Giudice, ex meteorina con Emilio Fede, divenuta assessore provinciale alle Politiche giovanili e alle Pari opportunità.
C’è una relazione tra il tessuto sociale della nostra regione e le “Papi girls”?
Le inchieste, giornalistiche e giudiziarie, dimostrano che non è una questione legata al disagio sociale ed economico. Certo è che la compagine campana tra le donne che frequentano le residenze di Berlusconi è la più folta. Ma l’anomalia non è la loro presenza nella vita del premier, piuttosto la pioggia di incarichi pubblici che rivestono.
Come lo spiega?
Da un lato può esserci un’eccessiva leggerezza da parte di una persona che non sa chi si mette in casa, un premier che non va troppo per il sottile, che ha corso e corre molti rischi con le sue frequentazioni e che poi deve, in qualche modo, correre ai ripari. Dall’altro è facile dare opportunità a delle ragazze, in una regione che ha un deficit di classe dirigente, specie nel partito di maggioranza relativa. Il partito di Berlusconi in Campania ha il suo coordinatore regionale, Nicola Cosentino, accusato di concorso esterno in associazione camorristica e il suo vice, nonché presidente della Provincia di Napoli e deputato, Luigi Cesaro, che impazza sul web per le sue gaffe e che ha candidamente ammesso di aver avuto rapporti con la Nuova camorra organizzata e con Rosetta Cutolo. Se questo è il punto più alto che oggi il centrodestra campano può esprimere, è evidente che lì, piuttosto che altrove, è facile piazzare veline in ruoli di comando...continua
di Alessandro Cenni
Un filo rosso unisce il “Casoria gate” al “Ruby gate” ed è incastrato tra le rocce del Vesuvio. Scandalo, caso giudiziario: Napoli ricorre incessante, tanto nei luoghi quanto nelle protagoniste. Facciamo il punto con Claudio Pappaianni, giornalista de “L’Espresso”, vincitore del concorso internazionale “Giornalisti del Mediterraneo” e coautore, insieme a Peter Gomez, Marco Lillo e Marco Travaglio, del libro Papi. Uno scandalo politico, edizioni Chiarelettere.
Pappaianni, Napoli è una parola chiave negli scandali del premier?
È sicuramente uno snodo importante, se non altro perché il “Papi gate”, dal punto di vista mediatico, parte da lì, dalla festa di 18 anni di Noemi Letizia a Casoria. Veronica Lario decide di rompere il suo matrimonio con Silvio Berlusconi, l’Italia distratta scopre che è governata da un uomo che trascorre serate circondato da decine donne, molte delle quali sono escort di professione. Tutto, dopo la bella intervista di Angelo Agrippa del “Corriere del Mezzogiorno” alla ragazza di Portici che ci fa scoprire che Silvio Berlusconi, nel suo harem, si fa chiamare “Papi”. Un’intervista, quella, che letta oggi è ancora più inquietante: è dettata da una grande ingenuità di Noemi o ricca di messaggi in codici?
Che intende?
Intanto, Noemi è la prima che parla di “Bunga Bunga”, raccontandola come una delle barzellette preferite dal premier (illuminante ed educativa, per una ragazza di 17 anni). Poi, dopo aver raccontato della «scrivania del premier sommersa dalle carte», conclude di voler entrare in politica: «Ci penserà Papi Silvio», disse.
Tutto ha inizio nel 2008?
Il fenomeno delle “Papi girls” è certamente precedente: Berlusconi conosce Francesca Pascale, per esempio, sul finire del 2006, per poi ospitarla in una cena privata sul suo aereo personale dopo una manifestazione a Piazza del Plebiscito a Napoli. Ma i festini circondato da decine di belle donne non sono certo una novità per Berlusconi: nel 1986, stando ad un’intercettazione che abbiamo inserito nel libro, si preparava a festeggiare il Capodanno assieme a Bettino Craxi, in compagnia delle showgirl del “Drive in”. Era l’era Craxi, l’epoca di “nani e ballerine”. Ora ci sono “nani e veline”.
Cos’è cambiato da allora?
Che le “Papi girls” le paghiamo noi. Berlusconi può piazzare una velina di periferia come Francesca Pascale, una che si esibiva su “Telecafone”, in politica. La Pascale è consigliere provinciale, cioè ha un ruolo istituzionale. E così Virna Bello, una Pr di provincia nota come “la braciulona” e anche lei nel gruppo della Pascale, il comitato “Silvio ci manchi”, finita col diventare assessore a Torre del Greco.
Oppure Emanuela Romano, che è stata certamente a Villa Certosa, ora assessore ai Servizi sociali a Castellamare di Stabia. C’è poi Giovanna Del Giudice, ex meteorina con Emilio Fede, divenuta assessore provinciale alle Politiche giovanili e alle Pari opportunità.
C’è una relazione tra il tessuto sociale della nostra regione e le “Papi girls”?
Le inchieste, giornalistiche e giudiziarie, dimostrano che non è una questione legata al disagio sociale ed economico. Certo è che la compagine campana tra le donne che frequentano le residenze di Berlusconi è la più folta. Ma l’anomalia non è la loro presenza nella vita del premier, piuttosto la pioggia di incarichi pubblici che rivestono.
Come lo spiega?
Da un lato può esserci un’eccessiva leggerezza da parte di una persona che non sa chi si mette in casa, un premier che non va troppo per il sottile, che ha corso e corre molti rischi con le sue frequentazioni e che poi deve, in qualche modo, correre ai ripari. Dall’altro è facile dare opportunità a delle ragazze, in una regione che ha un deficit di classe dirigente, specie nel partito di maggioranza relativa. Il partito di Berlusconi in Campania ha il suo coordinatore regionale, Nicola Cosentino, accusato di concorso esterno in associazione camorristica e il suo vice, nonché presidente della Provincia di Napoli e deputato, Luigi Cesaro, che impazza sul web per le sue gaffe e che ha candidamente ammesso di aver avuto rapporti con la Nuova camorra organizzata e con Rosetta Cutolo. Se questo è il punto più alto che oggi il centrodestra campano può esprimere, è evidente che lì, piuttosto che altrove, è facile piazzare veline in ruoli di comando...continua
LA GANG DEL PERCOLATO
Quattordici arresti di funzionari e dirigenti che smaltivano illecitamente i liquami nelle acque costiere. Un’inchiesta che si riallaccia all’emergenza rifiuti del 2003
di Marilù Musto
Chi non ricorda le proteste di Villa Literno, tra il 2003 e il 2004? Mentre era in corso l’ultima guerra di camorra tra i gruppi Tavoletta-Ucciero e Bidognetti, alcuni giovani di nemmeno 20 anni finivano i loro giorni di vita stramazzati al suolo.
C’era una parte del paese fatta di donne con bambini e i loro uomini al seguito che protestava contro gli sversamenti delle ecoballe sul territorio liternese.
«Qui, prima o poi, nasceranno gli alberi blu», dicevano i manifestanti.
E chi non ricorda, invece, il commissario dei rifiuti Corrado Catenacci, che giungeva a Villa Literno, il paese più grande per estensione territoriale di tutta la provincia di Caserta, sulla sua auto blindata, scortata dai carabinieri della locale stazione.
Carabinieri che quando non erano impegnati sull’ultimo morto inchiodato a terra dai killer, erano sul sito di “Lo Spesso” per il servizio di ordine pubblico.
Quando arrivava Catenacci a Villa Literno, in quegli anni, la folla si infiammava. Fino a quando il sindaco del paese, Enrico Fabozzi, parlava con il commissario nella sala comunale.
E ne usciva con un responso: ancora ecoballe a Villa Literno.
In cambio, però, il Governo depurava le acque del paese e stanziava soldi a cascate per rimettere a nuovo la cittadina con una bonifica. In pratica il Governo dava, in cambio della “monnezza” di quasi metà della regione, ciò che il paese doveva ottenere per diritto: acqua pulita e aria salubre.
Dove sono andati a finire i litri di percolato che ristagnavano al margine delle ecoballe di “Lo Spesso”? Un’inchiesta ha fornito una parziale risposta. Perché dopo sette anni, dopo pagine di giornali dedicate allo scandalo rifiuti in Campania e dopo che la “questione Villa Literno” è stata messa a tacere con le cascate di finanziamenti, si è giunti ad un risultato: l’ex presidente della Regione Campania Antonio Bassolino è fra i 38 indagati nell’ambito dell’indagine su presunti reati ambientali.
I numeri dell’inchiesta della Procura napoletana sono altissimi: 14 solo gli arresti eseguiti dai carabinieri del Noe e della Guardia di finanza, tra cui proprio l’ex prefetto Corrado Catenacci e l’ex vice di Guido Bertolaso alla Protezione civile, Marta Di Gennaro.
Indagato anche l’ex capo della segreteria politica di Bassolino, Gianfranco Nappi e l’ex assessore regionale all’epoca delle giunte “bassoliniane” Luigi Nocera.
L’indagine è la prosecuzione di quella conclusa nel maggio 2008, nota con il nome di “Operazione Rompiballe”, che ha portato all’arresto di 25 indagati per traffico illecito di rifiuti.
Nelle carte vengono riscontrati dalla Procura «gravi indizi di colpevolezza nei confronti di ex uomini politici, professori universitari, dirigenti della pubblica amministrazione e tecnici delle strutture commissariali, che si sono avvicendati al Commissariato per l’emergenza rifiuti della Regione Campania dal 2006 al 2008 che, in qualità di responsabili del processo di smaltimento del “percolato” prodotto dal sistema regionale, utilizzavano gli impianti di depurazione di acque reflue della Regione Campania, contribuendo all’inquinamento del tratto costiero del litorale napoletano».
In pratica, nel corso delle indagini che hanno portato all’arresto delle 14 persone accusate di associazione per delinquere, truffa e reati ambientali, è stata accertata l’esistenza di un accordo illecito tra pubblici funzionari e gestori di impianti di depurazione campani, che ha consentito, per anni, lo sversamento in mare del percolato (rifiuto liquido prodotto dalle discariche di rifiuti solidi urbani), in violazione delle norme a tutela dell’ambiente.
Il percolato veniva immesso senza alcun trattamento nei depuratori dai quali finiva direttamente in mare, contribuendo ad inquinare un lunghissimo tratto di costa della Campania, dal Salernitano fino al Casertano.
Non a caso, l’ordinanza di custodia in carcere, scattata il 28 gennaio scorso, ha raggiunto anche i manager della società Hidrogest, Gaetano De Bari e Claudio De Biasio...continua
di Marilù Musto
Chi non ricorda le proteste di Villa Literno, tra il 2003 e il 2004? Mentre era in corso l’ultima guerra di camorra tra i gruppi Tavoletta-Ucciero e Bidognetti, alcuni giovani di nemmeno 20 anni finivano i loro giorni di vita stramazzati al suolo.
C’era una parte del paese fatta di donne con bambini e i loro uomini al seguito che protestava contro gli sversamenti delle ecoballe sul territorio liternese.
«Qui, prima o poi, nasceranno gli alberi blu», dicevano i manifestanti.
E chi non ricorda, invece, il commissario dei rifiuti Corrado Catenacci, che giungeva a Villa Literno, il paese più grande per estensione territoriale di tutta la provincia di Caserta, sulla sua auto blindata, scortata dai carabinieri della locale stazione.
Carabinieri che quando non erano impegnati sull’ultimo morto inchiodato a terra dai killer, erano sul sito di “Lo Spesso” per il servizio di ordine pubblico.
Quando arrivava Catenacci a Villa Literno, in quegli anni, la folla si infiammava. Fino a quando il sindaco del paese, Enrico Fabozzi, parlava con il commissario nella sala comunale.
E ne usciva con un responso: ancora ecoballe a Villa Literno.
In cambio, però, il Governo depurava le acque del paese e stanziava soldi a cascate per rimettere a nuovo la cittadina con una bonifica. In pratica il Governo dava, in cambio della “monnezza” di quasi metà della regione, ciò che il paese doveva ottenere per diritto: acqua pulita e aria salubre.
Dove sono andati a finire i litri di percolato che ristagnavano al margine delle ecoballe di “Lo Spesso”? Un’inchiesta ha fornito una parziale risposta. Perché dopo sette anni, dopo pagine di giornali dedicate allo scandalo rifiuti in Campania e dopo che la “questione Villa Literno” è stata messa a tacere con le cascate di finanziamenti, si è giunti ad un risultato: l’ex presidente della Regione Campania Antonio Bassolino è fra i 38 indagati nell’ambito dell’indagine su presunti reati ambientali.
I numeri dell’inchiesta della Procura napoletana sono altissimi: 14 solo gli arresti eseguiti dai carabinieri del Noe e della Guardia di finanza, tra cui proprio l’ex prefetto Corrado Catenacci e l’ex vice di Guido Bertolaso alla Protezione civile, Marta Di Gennaro.
Indagato anche l’ex capo della segreteria politica di Bassolino, Gianfranco Nappi e l’ex assessore regionale all’epoca delle giunte “bassoliniane” Luigi Nocera.
L’indagine è la prosecuzione di quella conclusa nel maggio 2008, nota con il nome di “Operazione Rompiballe”, che ha portato all’arresto di 25 indagati per traffico illecito di rifiuti.
Nelle carte vengono riscontrati dalla Procura «gravi indizi di colpevolezza nei confronti di ex uomini politici, professori universitari, dirigenti della pubblica amministrazione e tecnici delle strutture commissariali, che si sono avvicendati al Commissariato per l’emergenza rifiuti della Regione Campania dal 2006 al 2008 che, in qualità di responsabili del processo di smaltimento del “percolato” prodotto dal sistema regionale, utilizzavano gli impianti di depurazione di acque reflue della Regione Campania, contribuendo all’inquinamento del tratto costiero del litorale napoletano».
In pratica, nel corso delle indagini che hanno portato all’arresto delle 14 persone accusate di associazione per delinquere, truffa e reati ambientali, è stata accertata l’esistenza di un accordo illecito tra pubblici funzionari e gestori di impianti di depurazione campani, che ha consentito, per anni, lo sversamento in mare del percolato (rifiuto liquido prodotto dalle discariche di rifiuti solidi urbani), in violazione delle norme a tutela dell’ambiente.
Il percolato veniva immesso senza alcun trattamento nei depuratori dai quali finiva direttamente in mare, contribuendo ad inquinare un lunghissimo tratto di costa della Campania, dal Salernitano fino al Casertano.
Non a caso, l’ordinanza di custodia in carcere, scattata il 28 gennaio scorso, ha raggiunto anche i manager della società Hidrogest, Gaetano De Bari e Claudio De Biasio...continua
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PD, CHE BRUTTO AFFARE LE PRIMARIE
Dopo il triste spettacolo delle consultazioni napoletane, la base del partito ci ripensa: «Qui ci vogliono regole, far votare tutti significa andare al massacro»
di Francesco Falco
Dell’esito, incerto, interessa parlare fino a un certo punto. Perché tra le accuse di brogli, di voti comprati per una manciata di euro nelle zone più povere della città, tra veti e parziali distensioni, definire pasticcio questa storia è a dir poco eufemistico. Se ne sono accorti anche ai piani alti del partito, captando l’amarezza di iscritti e militanti che hanno visto le primarie per il candidato sindaco del Pd a Napoli trasformarsi in una guerra interna logorante e manifesta.
Fiutati i pericoli, è stato il segretario nazionale Pierluigi Bersani, nei giorni successivi alla vittoria contestatissima di Andrea Cozzolino contro Umberto Ranieri e Libero Mancuso, a inviare a Napoli Andrea Orlando, in veste di commissario, con il compito di sciogliere un nodo che rischia di trasformarsi in un clamoroso autogol. Del resto, era stato lo stesso segretario regionale Enzo Amendola, durante l’assemblea nazionale del partito, ad esprimersi con questi toni: «Senza retorica vi chiedo scusa per quanto è accaduto: siamo una comunità legata da un impegno e una lotta comune e per questo le mie scuse sono segnate da amarezza e inquietudine».
Un sentimento di disaffezione che serpeggia in maniera evidente tra la base del partito, covato già da tempo e ribadito da chi sconfessa, a larghissima maggioranza, i risultati della consultazione, come segnalato da un sondaggio de “la Repubblica Napoli”, secondo il quale solo l’11% ritiene credibile il dato uscito dalle primarie.
E ora? Dopo la parziale retromarcia di Cozzolino, i nomi rilanciati come quello di Raffaele Cantone e Luigi De Magistris sembrano suggerire la figura di una personalità trasparente e affidabile, capace di ricompattare iscritti e simpatizzanti intorno a una figura di rinnovamento. Ma Cantone pare proprio non aver voglia di lanciarsi in una sfida elettorale simile, e la palla ripassa in mano alla politica.
Certo, ci si guarda bene dal prendersela con il mezzo primarie, un mero strumento in mano a chi lo usa peculiarmente e non senza distorsioni. Come quelle segnalate da Renato Natale, chiamato in veste di commissario a rilanciare il Pd di Casal di Principe, in uno dei tanti paesi della provincia di Caserta dove il maggiore partito del centrosinistra mostra enormi segnali di difficoltà.
«Per come vengono organizzate, io non credo alle primarie. Se fossero programmate con gli iscritti, beh sì; ma in alcune realtà è evidente che l’avversario politico è tentato di intervenire per far vincere il candidato più debole, per poi batterlo più agevolmente alle elezioni.
Non si può – continua Natale – scimmiottare altri Paesi senza la stessa storia, senza poi considerare criticità come la compravendita di voti o altre distorsioni». E sulle primarie napoletane, rincara: «La frattura interna crea perplessità a persone come me e altri: il centro del dibattito è sempre sull’organigramma, su chi fa che cosa, e non su temi concreti come la sicurezza sul lavoro, l’ambiente, la lotta alle illegalità».
Sulla scelta, “laica”, di accettare l’incarico di commissario del Pd locale, conclude: «Ho deciso di fare il commissario sulla spinta di una serie di amici e compagni di Casal di Principe, per ricostruire un minimo di attività politica che era sparita, cercando di riavvicinare quelli che si erano allontanati, che erano trasmigrati nel volontariato, ma il mio è soltanto un ruolo locale».
La pressoché unanime condanna dello spettacolo negativo offerto dal Pd giunge anche da Raffaele Vitale, giovane segretario del Pd di Parete: «Cose del genere allontanano le nuove generazioni dalla politica: il risultato è quello di ottenere l’effetto inverso. Calare le primarie senza un regolamento che tuteli tutti, in una realtà complessa come la nostra, vuol dire andare al massacro, se non ti doti di uno strumento di garanzia efficace»...continua
di Francesco Falco
Dell’esito, incerto, interessa parlare fino a un certo punto. Perché tra le accuse di brogli, di voti comprati per una manciata di euro nelle zone più povere della città, tra veti e parziali distensioni, definire pasticcio questa storia è a dir poco eufemistico. Se ne sono accorti anche ai piani alti del partito, captando l’amarezza di iscritti e militanti che hanno visto le primarie per il candidato sindaco del Pd a Napoli trasformarsi in una guerra interna logorante e manifesta.
Fiutati i pericoli, è stato il segretario nazionale Pierluigi Bersani, nei giorni successivi alla vittoria contestatissima di Andrea Cozzolino contro Umberto Ranieri e Libero Mancuso, a inviare a Napoli Andrea Orlando, in veste di commissario, con il compito di sciogliere un nodo che rischia di trasformarsi in un clamoroso autogol. Del resto, era stato lo stesso segretario regionale Enzo Amendola, durante l’assemblea nazionale del partito, ad esprimersi con questi toni: «Senza retorica vi chiedo scusa per quanto è accaduto: siamo una comunità legata da un impegno e una lotta comune e per questo le mie scuse sono segnate da amarezza e inquietudine».
Un sentimento di disaffezione che serpeggia in maniera evidente tra la base del partito, covato già da tempo e ribadito da chi sconfessa, a larghissima maggioranza, i risultati della consultazione, come segnalato da un sondaggio de “la Repubblica Napoli”, secondo il quale solo l’11% ritiene credibile il dato uscito dalle primarie.
E ora? Dopo la parziale retromarcia di Cozzolino, i nomi rilanciati come quello di Raffaele Cantone e Luigi De Magistris sembrano suggerire la figura di una personalità trasparente e affidabile, capace di ricompattare iscritti e simpatizzanti intorno a una figura di rinnovamento. Ma Cantone pare proprio non aver voglia di lanciarsi in una sfida elettorale simile, e la palla ripassa in mano alla politica.
Certo, ci si guarda bene dal prendersela con il mezzo primarie, un mero strumento in mano a chi lo usa peculiarmente e non senza distorsioni. Come quelle segnalate da Renato Natale, chiamato in veste di commissario a rilanciare il Pd di Casal di Principe, in uno dei tanti paesi della provincia di Caserta dove il maggiore partito del centrosinistra mostra enormi segnali di difficoltà.
«Per come vengono organizzate, io non credo alle primarie. Se fossero programmate con gli iscritti, beh sì; ma in alcune realtà è evidente che l’avversario politico è tentato di intervenire per far vincere il candidato più debole, per poi batterlo più agevolmente alle elezioni.
Non si può – continua Natale – scimmiottare altri Paesi senza la stessa storia, senza poi considerare criticità come la compravendita di voti o altre distorsioni». E sulle primarie napoletane, rincara: «La frattura interna crea perplessità a persone come me e altri: il centro del dibattito è sempre sull’organigramma, su chi fa che cosa, e non su temi concreti come la sicurezza sul lavoro, l’ambiente, la lotta alle illegalità».
Sulla scelta, “laica”, di accettare l’incarico di commissario del Pd locale, conclude: «Ho deciso di fare il commissario sulla spinta di una serie di amici e compagni di Casal di Principe, per ricostruire un minimo di attività politica che era sparita, cercando di riavvicinare quelli che si erano allontanati, che erano trasmigrati nel volontariato, ma il mio è soltanto un ruolo locale».
La pressoché unanime condanna dello spettacolo negativo offerto dal Pd giunge anche da Raffaele Vitale, giovane segretario del Pd di Parete: «Cose del genere allontanano le nuove generazioni dalla politica: il risultato è quello di ottenere l’effetto inverso. Calare le primarie senza un regolamento che tuteli tutti, in una realtà complessa come la nostra, vuol dire andare al massacro, se non ti doti di uno strumento di garanzia efficace»...continua
giovedì 3 febbraio 2011
MEGLIO CHE RESTINO SEPOLTI…
Siti archeologici preziosissimi e in gran quantità si concentrano nel territorio di Caserta e Napoli. Ma per lo Stato sono un fastidio, una rogna da gestire. E così i tombaroli ne approfittano
di Brunella Nobile
e Luisa Smeragliuolo Perrotta
Il territorio campano che si snoda lungo l’antica via consolare Appia è un territorio ricco dal punto di vista archeologico di reperti di inestimabile valore. Nessuna meraviglia, quindi, che questa notizia abbia valicato i confini della specializzazione accademica per giungere fino alle orecchie di tombaroli organizzati, che con un’attività redditizia come la profanazione delle tombe e dei siti archeologici dell’Alto casertano hanno messo in piedi un giro di ricettazione conclusosi con l’arresto per molti di loro nell’ambito dell’operazione Ro.Vi.Na., che nel mese di gennaio scorso ha portato al sequestro di 633 reperti archeologici destinati al mercato clandestino.
Con spilloni e metal detector, sono anni che i tombaroli sondano il terreno e rubano senza nascondersi più di tanto: alcuni, più amanti dell’arte di altri, espongono nelle proprie case ciò che trovano.
Anni di deprivazione hanno reso i siti, ufficiali e non, un po’ più poveri e un po’ meno interessanti, eppure le tracce del passato riaffiorano, resistono all’incuria e ai malintenzionati. Da Alife a Capua, da Santa Maria Capua Vetere ad Aversa, da Maddaloni a Calvi Risorta, fino a Succivo e oltre i siti archeologici ufficiali – nove in tutto in Terra di Lavoro (Alife, Calvi Risorta, Maddaloni, Roccamonfina, Santa Maria Capua Vetere, Teano, Agro atellano, Sessa Aurunca, Mondragone, cui si aggiunge la preziosa Liternum nel territorio giuglianese), seppure fuori dalle rotte turistiche più in auge, come Pompei, sono curati, tenuti in vita e visitati dal pubblico anche grazie ai musei disseminati sul territorio. Il problema è tutto il resto della provincia: come Carinola e Cellole, i cui resti romani sono in condizioni di degrado, come Calvi, l’antica Cales, che avrebbe bisogno di nuovi scavi e sorveglianza per quello che c’è, liberamente visitabile e più esposto all’attività di indefessi tombaroli, così come Francolise, la cui necropoli, in zona Montanaro, è una distesa di buche e di tombe violate.
I resti sono romani, sanniti, talvolta etruschi e in alcuni casi risalgono anche ad epoche più remote, paleolitico e neolitico: come a Tora e Piccilli, dove sono visitabili le “Ciampate del Diavolo”, ovvero le impronte di uomini primitivi risalenti a 56 milioni di anni fa, o a Liberi, l’antica Trebula, dove sono stati trovati pesci fossili risalenti a 110 milioni di anni fa. I lavori per la realizzazione della linea ferroviaria dell’alta velocità hanno portato alla luce, solo lungo la tratta Roma-Napoli, ben 149 siti archeologici: in media un sito ogni 500 metri lungo i primi 200 km della tratta. Nel Casertano, oltre ai già citati siti archeologici di Teano e Capua, dove sono stati rinvenuti una struttura termale di età imperiale e una villa rustica, le altre campagne di scavo hanno consentito l’individuazione di un sito con differenti fasi di vita dall’età repubblicana, nei pressi del Comune di Sparanise (Briccelle), e una villa rustica di età romana a Vitulazio.
Testimonianze di vita pre e protostorica fino all’età romana sono state rintracciate anche nei Comuni a nord di Napoli...continua
di Brunella Nobile
e Luisa Smeragliuolo Perrotta
Il territorio campano che si snoda lungo l’antica via consolare Appia è un territorio ricco dal punto di vista archeologico di reperti di inestimabile valore. Nessuna meraviglia, quindi, che questa notizia abbia valicato i confini della specializzazione accademica per giungere fino alle orecchie di tombaroli organizzati, che con un’attività redditizia come la profanazione delle tombe e dei siti archeologici dell’Alto casertano hanno messo in piedi un giro di ricettazione conclusosi con l’arresto per molti di loro nell’ambito dell’operazione Ro.Vi.Na., che nel mese di gennaio scorso ha portato al sequestro di 633 reperti archeologici destinati al mercato clandestino.
Con spilloni e metal detector, sono anni che i tombaroli sondano il terreno e rubano senza nascondersi più di tanto: alcuni, più amanti dell’arte di altri, espongono nelle proprie case ciò che trovano.
Anni di deprivazione hanno reso i siti, ufficiali e non, un po’ più poveri e un po’ meno interessanti, eppure le tracce del passato riaffiorano, resistono all’incuria e ai malintenzionati. Da Alife a Capua, da Santa Maria Capua Vetere ad Aversa, da Maddaloni a Calvi Risorta, fino a Succivo e oltre i siti archeologici ufficiali – nove in tutto in Terra di Lavoro (Alife, Calvi Risorta, Maddaloni, Roccamonfina, Santa Maria Capua Vetere, Teano, Agro atellano, Sessa Aurunca, Mondragone, cui si aggiunge la preziosa Liternum nel territorio giuglianese), seppure fuori dalle rotte turistiche più in auge, come Pompei, sono curati, tenuti in vita e visitati dal pubblico anche grazie ai musei disseminati sul territorio. Il problema è tutto il resto della provincia: come Carinola e Cellole, i cui resti romani sono in condizioni di degrado, come Calvi, l’antica Cales, che avrebbe bisogno di nuovi scavi e sorveglianza per quello che c’è, liberamente visitabile e più esposto all’attività di indefessi tombaroli, così come Francolise, la cui necropoli, in zona Montanaro, è una distesa di buche e di tombe violate.
I resti sono romani, sanniti, talvolta etruschi e in alcuni casi risalgono anche ad epoche più remote, paleolitico e neolitico: come a Tora e Piccilli, dove sono visitabili le “Ciampate del Diavolo”, ovvero le impronte di uomini primitivi risalenti a 56 milioni di anni fa, o a Liberi, l’antica Trebula, dove sono stati trovati pesci fossili risalenti a 110 milioni di anni fa. I lavori per la realizzazione della linea ferroviaria dell’alta velocità hanno portato alla luce, solo lungo la tratta Roma-Napoli, ben 149 siti archeologici: in media un sito ogni 500 metri lungo i primi 200 km della tratta. Nel Casertano, oltre ai già citati siti archeologici di Teano e Capua, dove sono stati rinvenuti una struttura termale di età imperiale e una villa rustica, le altre campagne di scavo hanno consentito l’individuazione di un sito con differenti fasi di vita dall’età repubblicana, nei pressi del Comune di Sparanise (Briccelle), e una villa rustica di età romana a Vitulazio.
Testimonianze di vita pre e protostorica fino all’età romana sono state rintracciate anche nei Comuni a nord di Napoli...continua
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Siti Archeologici trascurati
«IL BENE PUBBLICO È DIVENTATO MARGINALE»
Svendere il patrimonio artistico nazionale, come vorrebbe Tremonti, non è un’operazione conveniente. Parola di Salvatore Settis, uno dei maggiori archeologi e storici dell’arte del nostro paese
di Francesco Falco
Già direttore del Getty Research Institute di Los Angeles e della Scuola Normale di Pisa, titolare a Madrid della «Cátedra del Prado», Salvatore Settis è uno dei più importanti archeologi e storici dell’arte del nostro Paese. Da poche settimane è in libreria il suo ultimo saggio, Paesaggio, Costituzione, cemento (Einaudi, pp. 326, 19 euro).
Nella triste visione della dissoluzione del patrimonio pubblico e del paesaggio italiano, la sua riflessione acutissima e rigorosa è una luce preziosa per illuminare un principio fondamentale adombrato, ma ribadito di continuo anche nel testo sopraccennato: publica utilitas, interesse collettivo.
In Italia viviamo un paradosso: da un lato c’è il tasso di crescita demografica più basso d’Europa, dall’altro il più alto tasso di consumo del territorio d’Europa. Nel suo saggio, lei punta l’indice contro una superfetazione normativa che moltiplica le competenze suddividendole tra Comuni, Province, Regioni e Stato.
La sovrapposizione normativa è certamente una delle condizioni di contorno che rende possibile l’eccesso di cementificazione che si registra nel nostro Paese. Il punto centrale, tuttavia, risiede nella mentalità arcaica, un retaggio contadino, che vorrebbe quello nel mattone come l’investimento più sicuro e più proficuo. È una falsità, perché i risparmi indirizzati in investimenti improduttivi non fanno che accrescere il numero di appartamenti invenduti, quando invece potremmo reinvestire in settori più produttivi, come la ricerca scientifica, capitali che vengono immobilizzati. Con il rischio, continuando di questo passo, di assistere in Italia alla medesima bolla immobiliare che ha colpito altri Paesi, con conseguenze molto gravi.
La moltiplicazione di norme fa il paio con l’alleggerimento del peso specifico di altre e con l’azione in deroga, in una sorta di stato di eccezione permanente.
Infatti. A un certo punto si crea attorno al cittadino una foresta di norme e di veti che per poterne uscire bisogna agire in deroga. Non si interviene mai con leggi che abbiano una efficacia e che siano in armonia con altre leggi, ma si opera in deroga e si genera una sensazione di confusione. Il messaggio che passa è, poi, che le norme non ci sono e ognuno può fare quel che vuole, agendo da furbo.
La svendita del territorio è frutto, pare di capire, di un uso distorto degli oneri di urbanizzazione da parte dei comuni, che li utilizzano per questioni ordinarie, causa mancanza di liquidità.
È un fenomeno di cui si parla pochissimo, ma è fondamentale.
Gli oneri di urbanizzazione – secondo quanto prevedeva la legge Bucalossi – venivano pagati dal cittadino per consentire l’erogazione di servizi come l’elettricità, le fogne: addirittura era previsto un conto separato per i comuni, che potevano usare quelle risorse solo per determinate finalità. Un governo di centrosinistra modificò invece la normativa, trasferendo alla spesa corrente queste risorse. Il governo Berlusconi ha alimentato questo meccanismo abolendo l’Ici: in mancanza di contributi diretti, i comuni da qualche parte dovranno pur trovare le risorse per tirare avanti. È un meccanismo perverso perché vuol dire che il comune, per disporre di una certa cifra per l’attività ordinaria, pianifica l’anno prima quante costruzioni vanno fatte l’anno dopo. Inoltre, questo scatena una serie di provvedimenti che, a valanga, causano la distruzione del paesaggio, sia pubblico che privato.
Publica utilitas, quale superiore utilità dell’interesse collettivo, sembra un principio offuscato non da una singola legge ma da un orientamento di lungo corso: il pubblico, più che essere di tutti, sembra concepito come “non-privato”, non riconducibile ad un interesse definito e dunque agevolmente trascurabile. Il “caso Pompei” insegna.
Sì, è un’osservazione molto giusta. L’idea di pubblico bene, che in Italia ha una tradizione lunga e affonda le radici nel Diritto romano, sta diventando marginale, in coerenza con uno Stato segnato da modelli come il Thatcherismo e il Reaganismo.Visto che questi modelli hanno prodotto le crisi in cui ci troviamo, credo che sarebbe il momento di accorgersi che l’iperliberismo – questa etica per cui esiste solo l’individuo e non la società – va certamente corretto. È un momento, questo, in cui molte teorie economiche sono orientate a credere che quello che serve è uno Stato più forte, e non meno Stato. Svendere, come vorrebbe Tremonti, parte del patrimonio pubblico per ripianare il debito pubblico, dubito sia un’idea conveniente...continua
di Francesco Falco
Già direttore del Getty Research Institute di Los Angeles e della Scuola Normale di Pisa, titolare a Madrid della «Cátedra del Prado», Salvatore Settis è uno dei più importanti archeologi e storici dell’arte del nostro Paese. Da poche settimane è in libreria il suo ultimo saggio, Paesaggio, Costituzione, cemento (Einaudi, pp. 326, 19 euro).
Nella triste visione della dissoluzione del patrimonio pubblico e del paesaggio italiano, la sua riflessione acutissima e rigorosa è una luce preziosa per illuminare un principio fondamentale adombrato, ma ribadito di continuo anche nel testo sopraccennato: publica utilitas, interesse collettivo.
In Italia viviamo un paradosso: da un lato c’è il tasso di crescita demografica più basso d’Europa, dall’altro il più alto tasso di consumo del territorio d’Europa. Nel suo saggio, lei punta l’indice contro una superfetazione normativa che moltiplica le competenze suddividendole tra Comuni, Province, Regioni e Stato.
La sovrapposizione normativa è certamente una delle condizioni di contorno che rende possibile l’eccesso di cementificazione che si registra nel nostro Paese. Il punto centrale, tuttavia, risiede nella mentalità arcaica, un retaggio contadino, che vorrebbe quello nel mattone come l’investimento più sicuro e più proficuo. È una falsità, perché i risparmi indirizzati in investimenti improduttivi non fanno che accrescere il numero di appartamenti invenduti, quando invece potremmo reinvestire in settori più produttivi, come la ricerca scientifica, capitali che vengono immobilizzati. Con il rischio, continuando di questo passo, di assistere in Italia alla medesima bolla immobiliare che ha colpito altri Paesi, con conseguenze molto gravi.
La moltiplicazione di norme fa il paio con l’alleggerimento del peso specifico di altre e con l’azione in deroga, in una sorta di stato di eccezione permanente.
Infatti. A un certo punto si crea attorno al cittadino una foresta di norme e di veti che per poterne uscire bisogna agire in deroga. Non si interviene mai con leggi che abbiano una efficacia e che siano in armonia con altre leggi, ma si opera in deroga e si genera una sensazione di confusione. Il messaggio che passa è, poi, che le norme non ci sono e ognuno può fare quel che vuole, agendo da furbo.
La svendita del territorio è frutto, pare di capire, di un uso distorto degli oneri di urbanizzazione da parte dei comuni, che li utilizzano per questioni ordinarie, causa mancanza di liquidità.
È un fenomeno di cui si parla pochissimo, ma è fondamentale.
Gli oneri di urbanizzazione – secondo quanto prevedeva la legge Bucalossi – venivano pagati dal cittadino per consentire l’erogazione di servizi come l’elettricità, le fogne: addirittura era previsto un conto separato per i comuni, che potevano usare quelle risorse solo per determinate finalità. Un governo di centrosinistra modificò invece la normativa, trasferendo alla spesa corrente queste risorse. Il governo Berlusconi ha alimentato questo meccanismo abolendo l’Ici: in mancanza di contributi diretti, i comuni da qualche parte dovranno pur trovare le risorse per tirare avanti. È un meccanismo perverso perché vuol dire che il comune, per disporre di una certa cifra per l’attività ordinaria, pianifica l’anno prima quante costruzioni vanno fatte l’anno dopo. Inoltre, questo scatena una serie di provvedimenti che, a valanga, causano la distruzione del paesaggio, sia pubblico che privato.
Publica utilitas, quale superiore utilità dell’interesse collettivo, sembra un principio offuscato non da una singola legge ma da un orientamento di lungo corso: il pubblico, più che essere di tutti, sembra concepito come “non-privato”, non riconducibile ad un interesse definito e dunque agevolmente trascurabile. Il “caso Pompei” insegna.
Sì, è un’osservazione molto giusta. L’idea di pubblico bene, che in Italia ha una tradizione lunga e affonda le radici nel Diritto romano, sta diventando marginale, in coerenza con uno Stato segnato da modelli come il Thatcherismo e il Reaganismo.Visto che questi modelli hanno prodotto le crisi in cui ci troviamo, credo che sarebbe il momento di accorgersi che l’iperliberismo – questa etica per cui esiste solo l’individuo e non la società – va certamente corretto. È un momento, questo, in cui molte teorie economiche sono orientate a credere che quello che serve è uno Stato più forte, e non meno Stato. Svendere, come vorrebbe Tremonti, parte del patrimonio pubblico per ripianare il debito pubblico, dubito sia un’idea conveniente...continua
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intervista a Salvatore Settis
«L’OGGETTIVITÀ? PER FORTUNA NON ESISTE»
Eugenio Scalfari, maestro di generazioni di giornalisti, racconta le difficoltà della professione oggi. Il futuro è ancora nella formula inventata da lui: approfondimento e onestà dei punti di vista
di Raffaele de Chiara
La crisi delle vendite dei giornali come prodotto dell’avvento dei nuovi media e l’oggettività dell’informazione letta alla luce di una diversa concezione. Eugenio Scalfari, classe 1924, tra gli ultimi grandi giornalisti del secolo scorso ancora in attività, non usa mezzi termini nell’analizzare lo stato dell’arte del giornalismo in Italia. «L’abbassamento delle vendite dei quotidiani, e soprattutto dei periodici, non avviene solo nel nostro Paese, ma in tutto l’Occidente. Non credo che ciò dipenda dall’incapacità dei giornalisti, sarebbe infatti assai strano che in metà del pianeta tutti insieme fossero diventati incapaci». Il naturale cipiglio dei modi, accompagnato da un eloquio asciutto e forbito sono quelli di sempre, la disponibilità al dialogo anche. «La vera causa del calo è la concorrenza della televisione e di internet, è la società attuale che sta cambiando. Al giorno d’oggi, è sempre più evidente la rinuncia alla parola scritta, in favore di una comunicazione fondata principalmente sui suoni e sulle immagini».
Per alcuni, la causa dell’allontanamento dei lettori dalla carta stampata è dovuta anche all’abbandono, da parte di quest’ultima, di un modo di fare giornalismo “oggettivo”. «L’obiettività dei fatti è una finzione – afferma perentorio Scalfari –. Gli avvenimenti sono letti dai giornalisti secondo il loro punto di vista, ossia sulla base dell’interpretazione che loro ne danno». Non crede però che, così facendo, possa venire in qualche modo meno il rispetto e la tutela di chi legge? «Niente affatto, perché l’obiettività è cosa diversa rispetto ad un irraggiungibile distacco da ciò che si racconta. Essa consiste semplicemente nel rendere esplicito il punto di vista da cui ciascuno dei professionisti dell’informazione guarda gli avvenimenti. È solo questo quindi – sottolinea con forza – che va reso esplicito affinché i lettori possano decodificare le varie realtà dei giornali e dei giornalisti».
Una lettura dell’obiettività la sua, suffragata ancora di più dal notevole successo de “la Repubblica”, il quotidiano che fondò nel 1976 e che, per primo in Italia, ha cambiato il modo di fare informazione.
Non più soltanto cronaca, ma analisi e approfondimento secondo le diverse sensibilità di chi scrive. «Il futuro è ancora in quella formula. Non è certamente un caso se essa è stata adottata da tutti i giornali nazionali, sia nel nostro Paese che nel resto d’Europa». Da qualche anno a questa parte è sempre più diffuso il “Citizen Journalism”, ovvero un tipo di giornalismo detto anche partecipativo, che contempla un ruolo dei lettori sempre più attivo nella ricerca e nella divulgazione delle notizie. I suoi detrattori lo catalogano come fenomeno di costume, i suoi fautori come una risorsa indispensabile. «Il fenomeno cui lei fa riferimento si fonda interamente sulla comunicazione via Internet, con le varie forme dei social network, “Facebook”, “You Tube” e altre simili: non credo che sia semplicemente un fenomeno di costume, ma una realtà con cui tutti i giornali devono e dovranno confrontarsi»...continua
di Raffaele de Chiara
La crisi delle vendite dei giornali come prodotto dell’avvento dei nuovi media e l’oggettività dell’informazione letta alla luce di una diversa concezione. Eugenio Scalfari, classe 1924, tra gli ultimi grandi giornalisti del secolo scorso ancora in attività, non usa mezzi termini nell’analizzare lo stato dell’arte del giornalismo in Italia. «L’abbassamento delle vendite dei quotidiani, e soprattutto dei periodici, non avviene solo nel nostro Paese, ma in tutto l’Occidente. Non credo che ciò dipenda dall’incapacità dei giornalisti, sarebbe infatti assai strano che in metà del pianeta tutti insieme fossero diventati incapaci». Il naturale cipiglio dei modi, accompagnato da un eloquio asciutto e forbito sono quelli di sempre, la disponibilità al dialogo anche. «La vera causa del calo è la concorrenza della televisione e di internet, è la società attuale che sta cambiando. Al giorno d’oggi, è sempre più evidente la rinuncia alla parola scritta, in favore di una comunicazione fondata principalmente sui suoni e sulle immagini».
Per alcuni, la causa dell’allontanamento dei lettori dalla carta stampata è dovuta anche all’abbandono, da parte di quest’ultima, di un modo di fare giornalismo “oggettivo”. «L’obiettività dei fatti è una finzione – afferma perentorio Scalfari –. Gli avvenimenti sono letti dai giornalisti secondo il loro punto di vista, ossia sulla base dell’interpretazione che loro ne danno». Non crede però che, così facendo, possa venire in qualche modo meno il rispetto e la tutela di chi legge? «Niente affatto, perché l’obiettività è cosa diversa rispetto ad un irraggiungibile distacco da ciò che si racconta. Essa consiste semplicemente nel rendere esplicito il punto di vista da cui ciascuno dei professionisti dell’informazione guarda gli avvenimenti. È solo questo quindi – sottolinea con forza – che va reso esplicito affinché i lettori possano decodificare le varie realtà dei giornali e dei giornalisti».
Una lettura dell’obiettività la sua, suffragata ancora di più dal notevole successo de “la Repubblica”, il quotidiano che fondò nel 1976 e che, per primo in Italia, ha cambiato il modo di fare informazione.
Non più soltanto cronaca, ma analisi e approfondimento secondo le diverse sensibilità di chi scrive. «Il futuro è ancora in quella formula. Non è certamente un caso se essa è stata adottata da tutti i giornali nazionali, sia nel nostro Paese che nel resto d’Europa». Da qualche anno a questa parte è sempre più diffuso il “Citizen Journalism”, ovvero un tipo di giornalismo detto anche partecipativo, che contempla un ruolo dei lettori sempre più attivo nella ricerca e nella divulgazione delle notizie. I suoi detrattori lo catalogano come fenomeno di costume, i suoi fautori come una risorsa indispensabile. «Il fenomeno cui lei fa riferimento si fonda interamente sulla comunicazione via Internet, con le varie forme dei social network, “Facebook”, “You Tube” e altre simili: non credo che sia semplicemente un fenomeno di costume, ma una realtà con cui tutti i giornali devono e dovranno confrontarsi»...continua
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