Svendere il patrimonio artistico nazionale, come vorrebbe Tremonti, non è un’operazione conveniente. Parola di Salvatore Settis, uno dei maggiori archeologi e storici dell’arte del nostro paese
di Francesco Falco
Già direttore del Getty Research Institute di Los Angeles e della Scuola Normale di Pisa, titolare a Madrid della «Cátedra del Prado», Salvatore Settis è uno dei più importanti archeologi e storici dell’arte del nostro Paese. Da poche settimane è in libreria il suo ultimo saggio, Paesaggio, Costituzione, cemento (Einaudi, pp. 326, 19 euro).
Nella triste visione della dissoluzione del patrimonio pubblico e del paesaggio italiano, la sua riflessione acutissima e rigorosa è una luce preziosa per illuminare un principio fondamentale adombrato, ma ribadito di continuo anche nel testo sopraccennato: publica utilitas, interesse collettivo.
In Italia viviamo un paradosso: da un lato c’è il tasso di crescita demografica più basso d’Europa, dall’altro il più alto tasso di consumo del territorio d’Europa. Nel suo saggio, lei punta l’indice contro una superfetazione normativa che moltiplica le competenze suddividendole tra Comuni, Province, Regioni e Stato.
La sovrapposizione normativa è certamente una delle condizioni di contorno che rende possibile l’eccesso di cementificazione che si registra nel nostro Paese. Il punto centrale, tuttavia, risiede nella mentalità arcaica, un retaggio contadino, che vorrebbe quello nel mattone come l’investimento più sicuro e più proficuo. È una falsità, perché i risparmi indirizzati in investimenti improduttivi non fanno che accrescere il numero di appartamenti invenduti, quando invece potremmo reinvestire in settori più produttivi, come la ricerca scientifica, capitali che vengono immobilizzati. Con il rischio, continuando di questo passo, di assistere in Italia alla medesima bolla immobiliare che ha colpito altri Paesi, con conseguenze molto gravi.
La moltiplicazione di norme fa il paio con l’alleggerimento del peso specifico di altre e con l’azione in deroga, in una sorta di stato di eccezione permanente.
Infatti. A un certo punto si crea attorno al cittadino una foresta di norme e di veti che per poterne uscire bisogna agire in deroga. Non si interviene mai con leggi che abbiano una efficacia e che siano in armonia con altre leggi, ma si opera in deroga e si genera una sensazione di confusione. Il messaggio che passa è, poi, che le norme non ci sono e ognuno può fare quel che vuole, agendo da furbo.
La svendita del territorio è frutto, pare di capire, di un uso distorto degli oneri di urbanizzazione da parte dei comuni, che li utilizzano per questioni ordinarie, causa mancanza di liquidità.
È un fenomeno di cui si parla pochissimo, ma è fondamentale.
Gli oneri di urbanizzazione – secondo quanto prevedeva la legge Bucalossi – venivano pagati dal cittadino per consentire l’erogazione di servizi come l’elettricità, le fogne: addirittura era previsto un conto separato per i comuni, che potevano usare quelle risorse solo per determinate finalità. Un governo di centrosinistra modificò invece la normativa, trasferendo alla spesa corrente queste risorse. Il governo Berlusconi ha alimentato questo meccanismo abolendo l’Ici: in mancanza di contributi diretti, i comuni da qualche parte dovranno pur trovare le risorse per tirare avanti. È un meccanismo perverso perché vuol dire che il comune, per disporre di una certa cifra per l’attività ordinaria, pianifica l’anno prima quante costruzioni vanno fatte l’anno dopo. Inoltre, questo scatena una serie di provvedimenti che, a valanga, causano la distruzione del paesaggio, sia pubblico che privato.
Publica utilitas, quale superiore utilità dell’interesse collettivo, sembra un principio offuscato non da una singola legge ma da un orientamento di lungo corso: il pubblico, più che essere di tutti, sembra concepito come “non-privato”, non riconducibile ad un interesse definito e dunque agevolmente trascurabile. Il “caso Pompei” insegna.
Sì, è un’osservazione molto giusta. L’idea di pubblico bene, che in Italia ha una tradizione lunga e affonda le radici nel Diritto romano, sta diventando marginale, in coerenza con uno Stato segnato da modelli come il Thatcherismo e il Reaganismo.Visto che questi modelli hanno prodotto le crisi in cui ci troviamo, credo che sarebbe il momento di accorgersi che l’iperliberismo – questa etica per cui esiste solo l’individuo e non la società – va certamente corretto. È un momento, questo, in cui molte teorie economiche sono orientate a credere che quello che serve è uno Stato più forte, e non meno Stato. Svendere, come vorrebbe Tremonti, parte del patrimonio pubblico per ripianare il debito pubblico, dubito sia un’idea conveniente...continua
giovedì 3 febbraio 2011
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