Ben prima della vicenda della casa di Montecarlo, la fantomatica P3 confezionava una relazione calunniosa sull’attuale presidente della Regione. Con la regia dell’ex sottosegretario all’Economia Nicola Cosentino
di Lina Pasca e Raffaele de Chiara
«Eviterei la santificazione. Sono un peccatore come tanti, ma non per i peccati che mi attribuiscono». Sorride ironico il governatore della Campania Stefano Caldoro, mentre nella prima seduta del consiglio regionale, dopo la bufera politico-giudiziaria della “P3”, allude al falso dossier sulle sue presunte tendenze omosessuali, che sarebbe stato redatto dal suo compagno di partito e avversario alla candidatura come presidente della Regione Campania Nicola Cosentino. «Ma quell’amico la relazione l’ha portata o no?». È Cosentino a chiederlo al telefono ad Arcangelo Martino, imprenditore legato alla cosiddetta “P3”, la presunta loggia segreta capeggiata dal faccendiere Flavio Carboni e che avrebbe avuto tra i suoi molteplici scopi anche quello di favorire la candidatura di Cosentino in Campania. «La relazione», secondo gli inquirenti, altro non sarebbe che un falso dossier da cui si dovevano evincere le tendenze omosessuali di Caldoro, peccato imperdonabile secondo le valutazioni di Cosentino, all’epoca dei fatti sottosegretario all’Economia e coordinatore regionale del Pdl. Di quel dossier se ne è persa traccia, il candidato vincente alla fine è risultato essere Caldoro e l’unico strascico di quella storia, fino all’intervento della magistratura, è un documento comparso su un blog, poi oscurato, che faceva riferimento all’esistenza di quel contenuto. «Non finisce così, non finisce qua, anche Nicola lo sa». Lo afferma il presidente della Regione Campania, riferendosi a Cosentino e ai falsi dossier su frequentazioni di transessuali che sarebbero stati costruiti su di lui. «Esistono delle dinamiche interne – commenta Caldoro – per le quali nessuno è sicuro di potere andare avanti». E se per il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi i vertici della presunta loggia “P3”, che avrebbero tramato contro il suo candidato a presidente della Regione Campania, «sono solo quattro pensionati sfigati», Caldoro si dice curioso di sapere chi c’è dietro, chi diede le carte su di lui a Denis Verdini (uno dei coordinatori del Pdl e anch’egli coinvolto nella medesima inchiesta, ndr). Una curiosità che lui stesso è “obbligato” a smorzare: «Quando il rapporto è intermediato dalla politica – dichiara – certe curiosità devi controllarle. In ogni caso – continua Caldoro – non penso che i napoletani credano a questa roba». Alle accuse di aver in qualche modo pilotato il dossier, Cosentino risponde di aver agito quasi da “infiltrato” «per capire a quali rischi poteva essere esposta la campagna elettorale del Pdl e del suo candidato presidente». Ha poi aggiunto che «i rapporti tra lui e Caldoro non devono essere a tutti i costi buoni sul piano personale, ma di corretta interlocuzione istituzionale». Affermazione quest’ultima che non è piaciuta al leader di “Generazione Italia” Italo Bocchino, secondo cui tra Caldoro e Cosentino non vi può essere nemmeno un accenno di dialogo. «Dopo ciò che ha fatto Cosentino ai danni di Caldoro – dice Bocchino – il presidente della giunta regionale dovrebbe interrompere, da subito, ogni rapporto. Non dovrebbero neanche salutarsi, altro che interlocuzione istituzionale. Cosentino – conclude Bocchino – è un ostacolo oggettivo al funzionamento della giunta regionale». Ma il numero due di “Futuro e Libertà” va oltre, aggiungendo che «dopo l’estate Cosentino sarà costretto a lasciare il suo posto di direzione del Pdl campano e, in quel caso, avremo finalmente un coordinatore che andrà d’accordo con Caldoro. Aspettiamo che Berlusconi e i vertici di partito intervengano per rimuoverlo. È impensabile che Caldoro possa governare avendo come interlocutore il responsabile del principale partito di maggioranza che ha lavorato con notizie false e denigranti per eliminarlo dalla competizione elettorale...continua
venerdì 27 agosto 2010
QUEGLI OPERAI CHE NON SE NE VANNO
Tutti i giorni fuori ai cancelli di Melfi, i tre delegati Fiom allontanati dalla Fiat e reintegrati sul posto di lavoro dal giudice rappresentano un conflitto aperto nella grande industria del Sud,da Melfi a Pomigliano
di Francesco Falco
Finisce in tribunale il braccio di ferro tra la Fiat e tre lavoratori dello stabilimento di Melfi – Giovanni Barozzino, Antonio Lamorte e Marco Pignatelli – licenziati dall’azienda poche settimane fa. E nemmeno, perché in tribunale questa storia non finisce, avendo un giudice stabilito il reintegro dei tre, con l’azienda che controreplica decidendo di non avvalersi delle loro prestazioni lavorative fino al 6 ottobre, giorno in cui verrà esaminato il ricorso della Fiat contro il reintegro stabilito dal giudice. Loro confinati, nel frattempo, in una saletta per consentire «l’esercizio dell’attività sindacale», con la Fiom che annuncia un’azione legale e gli appelli dei lavoratori al Presidente Giorgio Napolitano perché «venga ristabilita la democrazia in Italia». Una storia emblematica della conflittualità permanente che regna non solo nello stabilimento di Melfi, significativa se condensata in questa immagine: tre uomini che si recano al lavoro scortati dai Carabinieri e da un ufficiale giudiziario, la vigilanza interna dell’azienda che li blocca e li dirige verso la “saletta sindacale”. Giovanni Barozzino parla al telefono con noi di una vicenda che si rimodula, con nuovi accadimenti, anche ora mentre scriviamo. La voce bassa che fatica a ripetere quanto detto ai cronisti piovuti fuori allo stabilimento di Melfi da tutta Italia per raccontare una storia che non attiene più, ormai, solo ai loro destini individuali.
Come si esce da una situazione come questa?
Stiamo valutando con i legali del sindacato come meglio agire. La Fiom si sta muovendo legalmente, ha già presentato una denuncia penale. Per quanto ci riguarda, noi licenziati non vogliamo che ci tolgano la dignità. Ci viene detto di andare e non poter lavorare: che significa? Ma stiamo scherzando?
La Fiat vi ha “confinato” in una saletta, sostenendo di voler fare a meno delle vostre prestazioni lavorative.
È tutto paradossale: come possiamo, seppure volendo, fare attività sindacale in uno stanzino a quattro, cinquecento metri di distanza dai lavoratori? Me lo dica lei, come.
Qual è lo scenario verosimile dei prossimi giorni?
Noi andremo a lavorare, ci recheremo in azienda: non siamo parassiti, io voglio lavorare, andremo in azienda tutti i giorni finché non ci sarà consentito di lavorare. Noi non abbiamo fatto niente, assolutamente. E non lo dico solo io, che posso risultare interessato, ma un giudice che l’ha accertato dopo sedici ore di testimonianza, ascoltando tanto la parte aziendale quanto i lavoratori.
Crede che l’atteggiamento di Fiat sia un pretesto per scelte aziendali future o per rimodulare accordi sindacali?
Il sospetto c’è, è forte.
C’è chi bolla la Fiom come estremista.
Innanzitutto dico questo: la Fiom-Cgil chiede continuamente tavoli di trattativa e non le vengono concessi, si è mostrata disponibile a trattare su tutto – e dico tutto – tranne che sui diritti dei lavoratori sanciti nella Costituzione. Oltre a quello, lo domando io a lei, che cosa può fare un sindacato? E poi vorrei ricordare che soltanto due mesi fa Sergio Marchionne ha definito questo stabilimento come il punto d’eccellenza non d’Italia, ma d’Europa! Abbiamo festeggiato qui a Melfi i cinque milioni di vetture realizzate. Come si sarebbe potuto fare se il nostro sindacato non fosse stato serio e responsabile? Come avremmo raggiunto un risultato del genere?...continua
di Francesco Falco
Finisce in tribunale il braccio di ferro tra la Fiat e tre lavoratori dello stabilimento di Melfi – Giovanni Barozzino, Antonio Lamorte e Marco Pignatelli – licenziati dall’azienda poche settimane fa. E nemmeno, perché in tribunale questa storia non finisce, avendo un giudice stabilito il reintegro dei tre, con l’azienda che controreplica decidendo di non avvalersi delle loro prestazioni lavorative fino al 6 ottobre, giorno in cui verrà esaminato il ricorso della Fiat contro il reintegro stabilito dal giudice. Loro confinati, nel frattempo, in una saletta per consentire «l’esercizio dell’attività sindacale», con la Fiom che annuncia un’azione legale e gli appelli dei lavoratori al Presidente Giorgio Napolitano perché «venga ristabilita la democrazia in Italia». Una storia emblematica della conflittualità permanente che regna non solo nello stabilimento di Melfi, significativa se condensata in questa immagine: tre uomini che si recano al lavoro scortati dai Carabinieri e da un ufficiale giudiziario, la vigilanza interna dell’azienda che li blocca e li dirige verso la “saletta sindacale”. Giovanni Barozzino parla al telefono con noi di una vicenda che si rimodula, con nuovi accadimenti, anche ora mentre scriviamo. La voce bassa che fatica a ripetere quanto detto ai cronisti piovuti fuori allo stabilimento di Melfi da tutta Italia per raccontare una storia che non attiene più, ormai, solo ai loro destini individuali.
Come si esce da una situazione come questa?
Stiamo valutando con i legali del sindacato come meglio agire. La Fiom si sta muovendo legalmente, ha già presentato una denuncia penale. Per quanto ci riguarda, noi licenziati non vogliamo che ci tolgano la dignità. Ci viene detto di andare e non poter lavorare: che significa? Ma stiamo scherzando?
La Fiat vi ha “confinato” in una saletta, sostenendo di voler fare a meno delle vostre prestazioni lavorative.
È tutto paradossale: come possiamo, seppure volendo, fare attività sindacale in uno stanzino a quattro, cinquecento metri di distanza dai lavoratori? Me lo dica lei, come.
Qual è lo scenario verosimile dei prossimi giorni?
Noi andremo a lavorare, ci recheremo in azienda: non siamo parassiti, io voglio lavorare, andremo in azienda tutti i giorni finché non ci sarà consentito di lavorare. Noi non abbiamo fatto niente, assolutamente. E non lo dico solo io, che posso risultare interessato, ma un giudice che l’ha accertato dopo sedici ore di testimonianza, ascoltando tanto la parte aziendale quanto i lavoratori.
Crede che l’atteggiamento di Fiat sia un pretesto per scelte aziendali future o per rimodulare accordi sindacali?
Il sospetto c’è, è forte.
C’è chi bolla la Fiom come estremista.
Innanzitutto dico questo: la Fiom-Cgil chiede continuamente tavoli di trattativa e non le vengono concessi, si è mostrata disponibile a trattare su tutto – e dico tutto – tranne che sui diritti dei lavoratori sanciti nella Costituzione. Oltre a quello, lo domando io a lei, che cosa può fare un sindacato? E poi vorrei ricordare che soltanto due mesi fa Sergio Marchionne ha definito questo stabilimento come il punto d’eccellenza non d’Italia, ma d’Europa! Abbiamo festeggiato qui a Melfi i cinque milioni di vetture realizzate. Come si sarebbe potuto fare se il nostro sindacato non fosse stato serio e responsabile? Come avremmo raggiunto un risultato del genere?...continua
«LA LOTTA PER IL LAVORO È LA NUOVA»
Antonio Ghirelli, leggendaria firma del giornalismo italiano, racconta i suoi anni con Pertini e i valori che li ispirarono. A partire dall’impegno per il Paese
di Mario Tudisco
«Al porto di Genova quel giorno, siamo verso la fine degli anni Settanta, la tensione era alle stelle per l’assemblea dei Camalli, che venivano considerati tutti vicini alle Brigate Rosse. Io ero giunto nel grande magazzino un po’ prima di Sandro Pertini. Fino all’ultimo il prefetto ci sconsigliò di intervenire, ma Sandro fu irremovibile. Entrò nel salone, prese un megafono e disse: “Non vi parla il Presidente della Repubblica ma il compagno Pertini. Io ho conosciuto solo le Brigate Rosse della Resistenza che ho guidato contro i fascisti e contro i nazisti, ma questi qui che hanno in comune con dei democratici come voi?”. Pochi secondi dopo l’intera assemblea iniziò a battergli le mani e non la finivano più».
L’io narrante di questo aneddoto si chiama Antonio Ghirelli, ottantotto anni portati alla grande e memoria storica italiana dagli anni Trenta in poi. E con lui è impossibile non parlare del Presidente della Repubblica più amato da sempre dagli italiani e dalle italiane: Sandro Pertini, di cui fu capo ufficio stampa nei sette anni che il mitico esponente socialista soggiornò al Quirinale. «Ancora oggi lo ripeto ai giovani che non erano ancora nati quando Sandro era Presidente. Era un uomo di grandissimo carisma, che definirei spirituale. Quando gli studenti delle scuole salivano al Colle, cacciava fuori i professori e gli accompagnatori e si faceva dare del tu dai ragazzi. Per me è stato anche più popolare di Diego Maradona, pur non avendo l’età giusta per giocare a calcio».
Professore, immagino che sette anni di lavoro fianco a fianco con Pertini restino indelebili nella sua mente. Del Presidente si è detto e scritto di tutto, prima e dopo il suo decesso. Lei che lo ha conosciuto bene come può raccontarlo alle nuove generazioni?
Era un personaggio eccezionale già molti anni prima che succedesse a Giovanni Leone. Io ho avuto la fortuna di conoscerlo molto presto. Per spiegare ai giovani di oggi di quale tempra fosse fatto Pertini sono costretto a raccontarle degli aneddoti. Il primo: poco dopo la Liberazione di Roma, Sandro si incontra con Pietro Nenni il quale gli dice: «Ora che è tutto finito tieniti pronto che sarai nominato ministro degli Esteri del governo che si insedierà prossimamente». Al che Pertini non fa una piega e gli risponde: «Mi piacerebbe molto accettare ma non posso. Tra poco devo incontrare un capitano della Raf che mi farà paracadutare in Alta Italia dove devo guidare le truppe della Resistenza nella battaglia finale». Capito che razza d’uomo era?
E il secondo aneddoto?
Sandro Pertini, nonostante avesse due lauree, per sfuggire ai fascisti si era rifugiato a Nizza dove sopravviveva facendo il manovale. Siccome apparteneva a una famiglia molto benestante aveva ricevuto in dono venti milioni di lire che, all’epoca, rappresentavano una cifra esorbitante. Naturalmente, Sandro non pensò minimamente di mettere in banca questo patrimonio ma lo devolse per la costruzione di una stazione ricetrasmittente in modo tale che anche i compagni socialisti potessero far sentire la loro voce in quei mesi terribili. Lui, infatti, era geloso delle capacità che avevano i comunisti di propagandare le loro idee e, stanziando quei venti milioni di lire, pensava di pareggiare il conto. Peccato, però, che fu subito convocato dalla gendarmeria francese che gli impose di chiudere immediatamente la mini stazione radiofonica. I francesi comunque furono gentili con Pertini, tanto che il funzionario gli disse: «Lei ha commesso un reato per cui dovrebbe essere arrestato. Per molto meno ai polsi di chiunque sarebbero scattate la manette, ma per la Francia sarebbe un disonore arrestare Sandro Pertini. Per favore esca da qui immediatamente!».
Al di là delle invidie propagandistiche, sembra che Pertini avesse buoni rapporti con i comunisti…
Sì, soprattutto con Enrico Berlinguer. Anzi, ad essere sincero tanto poco sopportava Bettino Craxi quanto adorava il numero uno di Botteghe Oscure, che era caratterialmente il suo opposto. Così come era sanguigno e impulsivo Pertini, tanto era riflessivo e schivo Enrico. Si ricorda le polemiche dopo che era andato a prendere la salma di Berlinguer con l’aereo presidenziale?
I socialisti non gradirono affatto quel grande gesto umanitario…
Sì, e incautamente Claudio Martelli ebbe l’ardire di criticare pubblicamente Pertini dopo che il gesto a cui si riferisce costò a noi socialisti la bellezza di trecentomila voti. Sandro andò su tutte le furie e rispose al vice di Bettino dalle colonne dei giornali: «Caro Claudio – disse – fa una cosa, suicidati sulla tomba di Giulietta a Verona che poi vengo con l’aereo presidenziale a recuperare il tuo cadavere e vedremo quanti voti recupereremo»...continua
di Mario Tudisco
«Al porto di Genova quel giorno, siamo verso la fine degli anni Settanta, la tensione era alle stelle per l’assemblea dei Camalli, che venivano considerati tutti vicini alle Brigate Rosse. Io ero giunto nel grande magazzino un po’ prima di Sandro Pertini. Fino all’ultimo il prefetto ci sconsigliò di intervenire, ma Sandro fu irremovibile. Entrò nel salone, prese un megafono e disse: “Non vi parla il Presidente della Repubblica ma il compagno Pertini. Io ho conosciuto solo le Brigate Rosse della Resistenza che ho guidato contro i fascisti e contro i nazisti, ma questi qui che hanno in comune con dei democratici come voi?”. Pochi secondi dopo l’intera assemblea iniziò a battergli le mani e non la finivano più».
L’io narrante di questo aneddoto si chiama Antonio Ghirelli, ottantotto anni portati alla grande e memoria storica italiana dagli anni Trenta in poi. E con lui è impossibile non parlare del Presidente della Repubblica più amato da sempre dagli italiani e dalle italiane: Sandro Pertini, di cui fu capo ufficio stampa nei sette anni che il mitico esponente socialista soggiornò al Quirinale. «Ancora oggi lo ripeto ai giovani che non erano ancora nati quando Sandro era Presidente. Era un uomo di grandissimo carisma, che definirei spirituale. Quando gli studenti delle scuole salivano al Colle, cacciava fuori i professori e gli accompagnatori e si faceva dare del tu dai ragazzi. Per me è stato anche più popolare di Diego Maradona, pur non avendo l’età giusta per giocare a calcio».
Professore, immagino che sette anni di lavoro fianco a fianco con Pertini restino indelebili nella sua mente. Del Presidente si è detto e scritto di tutto, prima e dopo il suo decesso. Lei che lo ha conosciuto bene come può raccontarlo alle nuove generazioni?
Era un personaggio eccezionale già molti anni prima che succedesse a Giovanni Leone. Io ho avuto la fortuna di conoscerlo molto presto. Per spiegare ai giovani di oggi di quale tempra fosse fatto Pertini sono costretto a raccontarle degli aneddoti. Il primo: poco dopo la Liberazione di Roma, Sandro si incontra con Pietro Nenni il quale gli dice: «Ora che è tutto finito tieniti pronto che sarai nominato ministro degli Esteri del governo che si insedierà prossimamente». Al che Pertini non fa una piega e gli risponde: «Mi piacerebbe molto accettare ma non posso. Tra poco devo incontrare un capitano della Raf che mi farà paracadutare in Alta Italia dove devo guidare le truppe della Resistenza nella battaglia finale». Capito che razza d’uomo era?
E il secondo aneddoto?
Sandro Pertini, nonostante avesse due lauree, per sfuggire ai fascisti si era rifugiato a Nizza dove sopravviveva facendo il manovale. Siccome apparteneva a una famiglia molto benestante aveva ricevuto in dono venti milioni di lire che, all’epoca, rappresentavano una cifra esorbitante. Naturalmente, Sandro non pensò minimamente di mettere in banca questo patrimonio ma lo devolse per la costruzione di una stazione ricetrasmittente in modo tale che anche i compagni socialisti potessero far sentire la loro voce in quei mesi terribili. Lui, infatti, era geloso delle capacità che avevano i comunisti di propagandare le loro idee e, stanziando quei venti milioni di lire, pensava di pareggiare il conto. Peccato, però, che fu subito convocato dalla gendarmeria francese che gli impose di chiudere immediatamente la mini stazione radiofonica. I francesi comunque furono gentili con Pertini, tanto che il funzionario gli disse: «Lei ha commesso un reato per cui dovrebbe essere arrestato. Per molto meno ai polsi di chiunque sarebbero scattate la manette, ma per la Francia sarebbe un disonore arrestare Sandro Pertini. Per favore esca da qui immediatamente!».
Al di là delle invidie propagandistiche, sembra che Pertini avesse buoni rapporti con i comunisti…
Sì, soprattutto con Enrico Berlinguer. Anzi, ad essere sincero tanto poco sopportava Bettino Craxi quanto adorava il numero uno di Botteghe Oscure, che era caratterialmente il suo opposto. Così come era sanguigno e impulsivo Pertini, tanto era riflessivo e schivo Enrico. Si ricorda le polemiche dopo che era andato a prendere la salma di Berlinguer con l’aereo presidenziale?
I socialisti non gradirono affatto quel grande gesto umanitario…
Sì, e incautamente Claudio Martelli ebbe l’ardire di criticare pubblicamente Pertini dopo che il gesto a cui si riferisce costò a noi socialisti la bellezza di trecentomila voti. Sandro andò su tutte le furie e rispose al vice di Bettino dalle colonne dei giornali: «Caro Claudio – disse – fa una cosa, suicidati sulla tomba di Giulietta a Verona che poi vengo con l’aereo presidenziale a recuperare il tuo cadavere e vedremo quanti voti recupereremo»...continua
venerdì 6 agosto 2010
GLI ULTIMI GIORNI DELL’IMPERATORE
Dopo lo scandalo P3, Nicola Cosentino è alle corde. Potrebbe lasciare il coordinamento del Pdl a breve. Il fedelissimo Landolfi: «È finito un ciclo»
di Alessandro Pecoraro
Nonostante sia piena estate, l’aria che si respira nel Popolo della libertà è gelida. La bomba scoppiata dopo la pubblicazione delle vicende legate all’inchiesta dell’eolico in Sardegna ha provocato vittime anche in Campania, dove la cricca, che sarebbe guidata da Nicola Cosentino (nella foto), è stata messa a nudo dai pubblici ministeri, grazie al prezioso ausilio delle intercettazioni telefoniche.
Secondo le indagini della magistratura, Cosentino, insieme al dimissionario assessore all’Agricoltura Ernesto Sica e ad altri fedelissimi, nell’ultimo anno avrebbe dato vita a una loggia segreta (definita P3) utilizzata, tra l’altro, per impedire ai vertici del Pdl di candidare Stefano Caldoro a presidente della Regione Campania.
Le pressioni sarebbero state forti a tal punto da mettere in piedi un dossier a luci rosse confezionato per convincere l’attuale governatore della Campania a ritirarsi dalla corsa alle ultime regionali. A poco più di un mese dallo scandalo campano, ciò che resta è un partito allo sbando.
Cosentino, dopo essere stato costretto alle dimissioni da sottosegretario all’Economia, potrebbe presto abbandonare anche la carica di coordinatore regionale.
I malumori nel Pdl regionale, infatti, sono ai livelli massimi: basti pensare alle posizioni critiche di Italo Bocchino e di tutti i finiani, ma anche alle parole del sottosegretario Pasquale Viespoli, che ha sollecitato un gesto di disponibilità da parte dell’oligarchia che ha in mano il partito, in quanto «si rischia di determinare una criticità rispetto all’autorevolezza del Pdl nella dialettica partito-governo regionale».
Ma non è tutto, anche il governatore della Campania, dopo aver estromesso Ernesto Sica dalla giunta e ottenuto la fiducia da parte della giunta e del consiglio, è pronto a prendersi la rivincita sfrerrando l’attacco finale nei confronti di Cosentino. Il coordinatore del Pdl campano, a quanto pare, è stato abbandonato anche dal suo vice Mario Landolfi, secondo cui ormai si è chiuso un ciclo: «Dobbiamo prenderne atto – ammette –. Ora bisogna aprire una riflessione all’interno del partito.
Serve un cambio di passo. La classe dirigente che ha compiuto questo percorso deve chiedersi, a cominciare da me, se è in grado o meno di guidare un nuovo corso».
Lo scenario che si profila per Cosentino è terrificante, l’ex zar del Pdl campano è stato sopraffatto dalla sua smania di controllare tutto e tutti, dapprima eliminando la famiglia Martusciello dalla guida di Forza Italia, poi facendo fuori i fedelissimi di Italo Bocchino ed, infine, puntando i piedi per evitare la candidatura di Mimì Zinzi alla provincia di Caserta, una decisione che provocò anche le dimissioni, immediatamente revocate, dalla guida del partito in Campania.
Dopo essere stato indotto a gettare la spugna sugli incarichi di governo, Cosentino, non appena terminerà l’estate, sarà inevitabilmente costretto a dire addio anche alla guida del partito campano, un addio che non sarà semplice né indolore...continua
LA DERIVA DEI DEMOCRATICI
Il coordinatore provinciale del Pd Enzo Iodice abbandona il partito dopo il commissariamento. È polemica sulla nomina del dirigente Ciro Cacciola
di Alessandro Pecoraro
Non c’è pace per il Pd in provincia di Caserta, che tra liti, tesseramenti gonfiati, fughe dal partito, primarie annullate e risultati elettorali poco esaltanti, è giunto al capolinea con le dichiarazioni al vetriolo dell’ex coordinatore provinciale Enzo Iodice, il quale, dopo le dimissioni causate dal flop del risultato elettorale di marzo, ha deciso di abbandonare il partito per approdare in lidi più tranquilli (si pensa all’Alleanza per l’Italia di Francesco Rutelli).
«In oltre quindici anni di esperienza politica – afferma Iodice – sono sempre stato coerente nelle mie scelte, come si suol dire, tirando la carretta e lavorando per il bene del centrosinistra casertano. Però, dopo la decisione di commissariare il coordinamento provinciale del Pd, sono venute meno le motivazioni che mi hanno spinto in questo percorso. Mi dispiace per come sono andate le cose, perché ho sempre creduto nel Pd ancor prima della sua nascita, però non posso continuare a stare in un partito che di fatto non è mai nato. Pur nutrendo profonda stima per il commissario Ciro Cacciola, non posso esimermi dal dire che la sua presenza è il vero segno della crisi di questo partito».
L’ex coordinatore provinciale, nominato nel 2006 grazie ad un accordo trasversale e fortemente voluto da Antonio Bassolino, è riuscito nella non facile impresa di portare il Pd casertano alla deriva, con la fuga di decine di iscritti e un magro 12% ottenuto alle elezioni provinciali. Le principali colpe di Enzo Iodice sono da imputare al fatto di non essere riuscito a trovare un filo comune per poter accontentare tutte le correnti interne al partito.
Basti pensare che la selezione del candidato alla guida della provincia è avvenuta ad appena un mese delle elezioni. Una scelta che non ha prodotto i risultati sperati, inducendo alcuni big addirittura ad abbandonare il partito, come Pasquale De Lucia e Lorenzo Diana, che hanno scagliato verso Iodice e gli altri dirigenti un pesantissimo atto d’accusa.
I risultati delle elezioni provinciali non hanno fatto altro che condurre il partito alla resa dei conti. Così mentre è continuato il tutti contro tutti, Pierluigi Bersani ha ben pensato di commissariare il partito provinciale affidandolo al “bassoliniano” Cacciola. «Faremo in modo che questo periodo di transizione duri il meno possibile – sono state le parole del neo commissario – ma gli obiettivi prioritari che ci poniamo sono altri. È indispensabile, soprattutto, ricucire i rapporti all’interno della coalizione di centrosinistra e sanare tutte le incomprensioni con gli alleati».
Il compito di Cacciola è molto complesso. Una scelta che, come evidenzia Iodice, ha condotto il partito in una crisi ben più grave, basti pensare alla situazione di Santa Maria Capua Vetere, dove il sindaco Giancarlo Giudicianni ha abbandonato il Pd in aperto contrasto con le scelte dirigenziali, o a Caserta, dove oltre la metà dei consiglieri in quota Partito democratico hanno cambiato casacca...continua
di Alessandro Pecoraro
Non c’è pace per il Pd in provincia di Caserta, che tra liti, tesseramenti gonfiati, fughe dal partito, primarie annullate e risultati elettorali poco esaltanti, è giunto al capolinea con le dichiarazioni al vetriolo dell’ex coordinatore provinciale Enzo Iodice, il quale, dopo le dimissioni causate dal flop del risultato elettorale di marzo, ha deciso di abbandonare il partito per approdare in lidi più tranquilli (si pensa all’Alleanza per l’Italia di Francesco Rutelli).
«In oltre quindici anni di esperienza politica – afferma Iodice – sono sempre stato coerente nelle mie scelte, come si suol dire, tirando la carretta e lavorando per il bene del centrosinistra casertano. Però, dopo la decisione di commissariare il coordinamento provinciale del Pd, sono venute meno le motivazioni che mi hanno spinto in questo percorso. Mi dispiace per come sono andate le cose, perché ho sempre creduto nel Pd ancor prima della sua nascita, però non posso continuare a stare in un partito che di fatto non è mai nato. Pur nutrendo profonda stima per il commissario Ciro Cacciola, non posso esimermi dal dire che la sua presenza è il vero segno della crisi di questo partito».
L’ex coordinatore provinciale, nominato nel 2006 grazie ad un accordo trasversale e fortemente voluto da Antonio Bassolino, è riuscito nella non facile impresa di portare il Pd casertano alla deriva, con la fuga di decine di iscritti e un magro 12% ottenuto alle elezioni provinciali. Le principali colpe di Enzo Iodice sono da imputare al fatto di non essere riuscito a trovare un filo comune per poter accontentare tutte le correnti interne al partito.
Basti pensare che la selezione del candidato alla guida della provincia è avvenuta ad appena un mese delle elezioni. Una scelta che non ha prodotto i risultati sperati, inducendo alcuni big addirittura ad abbandonare il partito, come Pasquale De Lucia e Lorenzo Diana, che hanno scagliato verso Iodice e gli altri dirigenti un pesantissimo atto d’accusa.
I risultati delle elezioni provinciali non hanno fatto altro che condurre il partito alla resa dei conti. Così mentre è continuato il tutti contro tutti, Pierluigi Bersani ha ben pensato di commissariare il partito provinciale affidandolo al “bassoliniano” Cacciola. «Faremo in modo che questo periodo di transizione duri il meno possibile – sono state le parole del neo commissario – ma gli obiettivi prioritari che ci poniamo sono altri. È indispensabile, soprattutto, ricucire i rapporti all’interno della coalizione di centrosinistra e sanare tutte le incomprensioni con gli alleati».
Il compito di Cacciola è molto complesso. Una scelta che, come evidenzia Iodice, ha condotto il partito in una crisi ben più grave, basti pensare alla situazione di Santa Maria Capua Vetere, dove il sindaco Giancarlo Giudicianni ha abbandonato il Pd in aperto contrasto con le scelte dirigenziali, o a Caserta, dove oltre la metà dei consiglieri in quota Partito democratico hanno cambiato casacca...continua
«A TEATRO SONO SOLO ME STESSA»
Amanda Sandrelli, figlia d’arte, si racconta. Dal debutto con Massimo Troisi e Roberto Benigni fino alla tournée con uno spettacolo sui politici italiani
di Mario Tudisco
«Quando arrivai sul set del film, Roberto mi venne incontro saltellando e, con il suo inconfondibile accento toscano, continuava a ripetermi: “Il tuo è un ruolo non grande... non piccolo… è una parte non piccola, ma non grande...”, fino a quando Massimo, fingendosi spazientito, iniziò a urlare: “Robe’ è un ruolo medio! Non esistesse la parola… ma esiste: medio!”. Io iniziai a ridere piegandomi in due e ho continuato a ridere per tutta la durata delle riprese. Anche il mio tormentone – che ancora oggi ricordano tutti quelli che hanno visto la pellicola – iniziò per caso quando Massimo mi disse: “Fai ‘na cosa, dì sempre la stessa parola fino a quando non te schiatte ‘e risate tu stessa prima di dirla nuovamente”». Correva l’anno 1984 e un’acerba Amanda Sandrelli (all’epoca diciannovenne, anche se dimostrava qualche anno in meno) si imbatte – sul set di Non ci resta che piangere – in Roberto Benigni e Massimo Troisi, in un periodo di grande grazia artistica. Non male, dunque, per il debutto della figlia di Gino Paoli e Stefania Sandrelli, che è oggi una delle lady indiscutibili del teatro italiano. «Se Massimo avesse vissuto ancora sono sicura che lui e Roberto si sarebbero rincontrati. E mi sarebbe piaciuto da morire ritrovarmi di nuovo sul set insieme a questi due fenomeni. Uno (Benigni) un vero e proprio clown, l’altro (Troisi) dotato di una irresistibile malinconia mista ad allegria. Del film esisteva solo il canovaccio di base. Tutto il resto lo inventarono loro due, a mano a mano che le riprese continuavano».
Amanda, si può dire che tu già avevi dimestichezza con i grandi artisti, essendo la figlia di Gino Paoli e di Stefania Sandrelli. A proposito, è un vantaggio o un handicap entrare a far parte del mondo dell’arte e dello spettacolo come prole di cotanti genitori?
Inizialmente è un vantaggio, un grande vantaggio, in quanto hai delle opportunità che molto difficilmente – come nel mio caso ad appena diciannove anni – possono avere i giovani. Una cosa è se ti presenti da perfetta sconosciuta; ben altra cosa è se sei la figlia di una coppia famosa. Detto questo, c’è anche il rovescio della medaglia: i paragoni continui con mamma e papà. E forse io ho iniziato a fare teatro proprio per sottrarmi inconsciamente a questi paragoni. Papà Gino canta e io non canto; mamma Stefania gira film e io di film ne ho fatti pochini. Insomma, molto meglio il teatro: lì la gente viene a congratularsi nei camerini, se è piaciuto loro lo spettacolo, non perché sei la figlia di persone famose.
Fare teatro, così come per ogni altra attività artistica, è diventato davvero duro nell’Italia dei tagli economici. Non parliamo poi di quanto sia difficile imporsi per chi è nato a Napoli o a Caserta...
Sì, è molto difficile continuare a fare teatro in questo nostro martoriato Paese. Eppure io resto convintissima che la cultura non sia e non debba mai essere un optional. Anzi, aumentare il tasso di cultura di una nazione aiuta tutti a vivere meglio. Peccato che questo concetto non sia affatto di gradimento al nostro amatissimo premier.
Non ti piace proprio Silvio Berlusconi...
Sinceramente no, neanche un poco. Le sue esternazioni – ad essere ancora più sincera – a volte mi lasciano basita. Tu prendi la sparata che ha fatto contro la Piovra e contro Gomorra. Secondo lui parlare di queste fenomenologie malavitose danneggerebbe l’immagine dell’Italia all’estero. Io, invece, sono convinta del contrario. E sono altrettanto convinta che non parlarne sarebbe peggio. Personalmente a Roberto Saviano costruirei un monumento: è giovane, è bravo ed è costretto per le scelte che ha fatto a vivere una vita marginale e blindata, ventiquattro ore su ventiquattro. Non so se io al suo posto avrei avuto lo stesso coraggio. Anzi, diciamocela tutta: avrei avuto paura, non mi sarei mai esposta in questo modo e, alla fine, sarei fuggita dalla Campania come fanno in tanti. Per me il vero problema non è Saviano, che parla di queste terre che, come Caserta, nonostante i mali radicati, hanno potenzialità infinite. Il vero e unico problema è chi cerca di mettere il bavaglio a tutti coloro che non la pensano come lui...continua
di Mario Tudisco
«Quando arrivai sul set del film, Roberto mi venne incontro saltellando e, con il suo inconfondibile accento toscano, continuava a ripetermi: “Il tuo è un ruolo non grande... non piccolo… è una parte non piccola, ma non grande...”, fino a quando Massimo, fingendosi spazientito, iniziò a urlare: “Robe’ è un ruolo medio! Non esistesse la parola… ma esiste: medio!”. Io iniziai a ridere piegandomi in due e ho continuato a ridere per tutta la durata delle riprese. Anche il mio tormentone – che ancora oggi ricordano tutti quelli che hanno visto la pellicola – iniziò per caso quando Massimo mi disse: “Fai ‘na cosa, dì sempre la stessa parola fino a quando non te schiatte ‘e risate tu stessa prima di dirla nuovamente”». Correva l’anno 1984 e un’acerba Amanda Sandrelli (all’epoca diciannovenne, anche se dimostrava qualche anno in meno) si imbatte – sul set di Non ci resta che piangere – in Roberto Benigni e Massimo Troisi, in un periodo di grande grazia artistica. Non male, dunque, per il debutto della figlia di Gino Paoli e Stefania Sandrelli, che è oggi una delle lady indiscutibili del teatro italiano. «Se Massimo avesse vissuto ancora sono sicura che lui e Roberto si sarebbero rincontrati. E mi sarebbe piaciuto da morire ritrovarmi di nuovo sul set insieme a questi due fenomeni. Uno (Benigni) un vero e proprio clown, l’altro (Troisi) dotato di una irresistibile malinconia mista ad allegria. Del film esisteva solo il canovaccio di base. Tutto il resto lo inventarono loro due, a mano a mano che le riprese continuavano».
Amanda, si può dire che tu già avevi dimestichezza con i grandi artisti, essendo la figlia di Gino Paoli e di Stefania Sandrelli. A proposito, è un vantaggio o un handicap entrare a far parte del mondo dell’arte e dello spettacolo come prole di cotanti genitori?
Inizialmente è un vantaggio, un grande vantaggio, in quanto hai delle opportunità che molto difficilmente – come nel mio caso ad appena diciannove anni – possono avere i giovani. Una cosa è se ti presenti da perfetta sconosciuta; ben altra cosa è se sei la figlia di una coppia famosa. Detto questo, c’è anche il rovescio della medaglia: i paragoni continui con mamma e papà. E forse io ho iniziato a fare teatro proprio per sottrarmi inconsciamente a questi paragoni. Papà Gino canta e io non canto; mamma Stefania gira film e io di film ne ho fatti pochini. Insomma, molto meglio il teatro: lì la gente viene a congratularsi nei camerini, se è piaciuto loro lo spettacolo, non perché sei la figlia di persone famose.
Fare teatro, così come per ogni altra attività artistica, è diventato davvero duro nell’Italia dei tagli economici. Non parliamo poi di quanto sia difficile imporsi per chi è nato a Napoli o a Caserta...
Sì, è molto difficile continuare a fare teatro in questo nostro martoriato Paese. Eppure io resto convintissima che la cultura non sia e non debba mai essere un optional. Anzi, aumentare il tasso di cultura di una nazione aiuta tutti a vivere meglio. Peccato che questo concetto non sia affatto di gradimento al nostro amatissimo premier.
Non ti piace proprio Silvio Berlusconi...
Sinceramente no, neanche un poco. Le sue esternazioni – ad essere ancora più sincera – a volte mi lasciano basita. Tu prendi la sparata che ha fatto contro la Piovra e contro Gomorra. Secondo lui parlare di queste fenomenologie malavitose danneggerebbe l’immagine dell’Italia all’estero. Io, invece, sono convinta del contrario. E sono altrettanto convinta che non parlarne sarebbe peggio. Personalmente a Roberto Saviano costruirei un monumento: è giovane, è bravo ed è costretto per le scelte che ha fatto a vivere una vita marginale e blindata, ventiquattro ore su ventiquattro. Non so se io al suo posto avrei avuto lo stesso coraggio. Anzi, diciamocela tutta: avrei avuto paura, non mi sarei mai esposta in questo modo e, alla fine, sarei fuggita dalla Campania come fanno in tanti. Per me il vero problema non è Saviano, che parla di queste terre che, come Caserta, nonostante i mali radicati, hanno potenzialità infinite. Il vero e unico problema è chi cerca di mettere il bavaglio a tutti coloro che non la pensano come lui...continua
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