Sono soprattutto meridionali i soldati che partono per i fronti più rischiosi. La minaccia di una
pallottola in cambio di uno stipendio triplicato. Ma c’è chi giura che nessuno va lì solo per soldi
di Raffaele de Chiara e Pietro Sgambati
Il recente attentato verificatosi a Kabul, che ha visto sei membri dell’esercito italiano finire avvolti da un sudario tricolore in un triste lunedì di metà settembre, ha sollevato un’interessante questione: chi sono realmente i militari che ci rappresentano sul nostro suolo e all’estero?
In una puntata della trasmissione Ballarò, condotta da Giovanni Floris e andata in onda il mese scorso su Rai Tre, numerosi cittadini intervistati per le strade hanno dichiarato: «L’esercito è costituito quasi interamente da meridionali che, privi di sbocchi lavorativi, non possono far altro che cercare fortuna arruolandosi». Chi si aspettava anche solo un "grazie" agli italici militari caduti sul campo è rimasto inevitabilmente deluso.
Gli intervistati hanno puntato l’attenzione sul fatto che i soldati in missione all’estero sono ben pagati e conoscono i rischi che corrono. Messa in questo modo sembra quasi che lo Stato italiano faccia affidamento per le proprie operazioni militari solo su di un manipolo di mercenari raccattati là, dove non c’è più speranza per il proprio futuro. Ma è veramente così? «È la mancanza di opportunità di pari livello che spinge i giovani del sud verso la carriera militare». A sottolinearlo con forza è l’aviere dell’aeronautica C.D., voce sottile ma decisa, il quale spiega: «Se puoi guadagnare 1.300 euro con la licenza media è ovvio che ti arruoli e non scegli di fare il muratore».
Altro poi il discorso relativo alle missioni di pace all’estero, ben remunerate ma non abbastanza da rischiare la vita.
La paga per il militare risulta aumentata fino a tre volte lo stipendio. «Generalmente all’inizio – come tiene a precisare l’aviere – si viene spediti in Kosovo dove realmente si può parlare di operazioni di pace. Lì la guerra è finita da anni e i militari possono davvero occuparsi di operazioni umanitarie. Soltanto dopo diverse esperienze si affrontano missioni più rischiose». Cosa si intende poi per rischio è sempre lui a dirlo. «Se vai in Afghanistan è chiaro che metti nel conto anche di non tornare più».
Sguardo bonario, fisico imponente e modi gentili: «Prima facevo l’elettricista, poi sono partito per la leva e ho deciso di arruolarmi». Esordisce così il caporal maggiore dell’esercito, R.R., 30 anni, con alle spalle già tre missioni, in Iraq, in Kosovo e in Libano...continua
giovedì 5 novembre 2009
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