Il sistema clientelare ammazza la competitività e la meritocrazia. Eppure sembra l’unica chance in Campania per ottenere un lavoro decente
di Lina Pasca
Spetta alla Campania la maglia nera della disoccupazione con oltre il 20% dei senza lavoro. L’allarme arriva dalla Cgia, associazione artigiani e piccole imprese di Mestre, che ha calcolato i valori della situazione occupazionale utilizzando un ulteriore indicatore, quello dei cosiddetti inattivi. In tal modo ha ridefinito il tasso della disoccupazione reale in Campania, aggravando di 6 punti percentuali la stima del dato Istat che era del 14,3%.
«Le persone che non cercano più lavoro sono in continua crescita – afferma Giuseppe Borolussi, segretario della Cgia – e determinano un fattore di errore nella stima in quanto non rientranti nelle categorie di occupati o in cerca di occupazione». Gli “sconfortati” sono tra quelli che non trovano occupazione né attraverso i canali ufficiali – i centri per l’impiego o i concorsi pubblici – né attraverso il para-sistema del clientelismo. Nel secondo caso ciò è possibile o perché si è tra gli ultimi esseri umani ad avere una morale, o perché non si hanno le conoscenze giuste.
Una volta la chiamavano raccomandazione, oggi, nell’era post-tangentopoli, bandita dal dizionario la vetusta parola da Prima Repubblica mazzetta, la si usa definire “sistema clientelare”. Esso rappresenta il male oscuro del nostro Paese, più pericoloso forse della stessa crisi. «Il Nord è efficiente, il Sud è clientelare – ha dichiarato Ignazio Marino, senatore del Pd, presidente della Commissione parlamentare per l’efficienza del Servizio sanitario nazionale – ed è per questo che bisogna commissariare le Regioni». Marino ha illustrato come in Campania la sanità pubblica sia stata spesso considerata un luogo di occupazione clientelare, dove l’amicizia con il politico di riferimento ha prevalso sul merito: «I Direttori generali sono stati valutati non su base meritocratica – continua il senatore – ma nominati sulle basi delle appartenenze partitiche». Se non parliamo di redditi da 100 mila euro in su, ma della neo-diplomata contabile alla ricerca di un posto anche da addetta alle fotocopie, o del praticante avvocato laureato con tanto di lode, cambiano le forme e gli stipendi ma i contenuti restano gli stessi. Il problema è trovare lavoro e se ciò significa affidarsi al “mani in pasta” del momento, ben venga anche questo. Meglio ancora se si è sotto elezioni: una cena con l’amministratore locale, magari con la partecipazione di un candidato alla Regione, più il parente del facoltoso imprenditore, e forse si riesce finalmente a prendere il posto. Il clientelismo diventa dunque l’alternativa, una sorta di ammortizzatore sociale, di male minore condiviso: «L’importante è portare a casa la pagnotta – dichiara Nando, fisioterapista specialista in tecniche di riabilitazione, impiegato presso un centro privato dell’Aversano –. Sì, è vero, una mano mi è stata data. Ma sono contento di averla chiesta. Se non fosse così, ora starei ancora a casa con mammà, invece a giugno del prossimo anno potrò finalmente sposarmi dopo dieci anni di fidanzamento. E poi l’importante è non rubare!».
Continuiamo la nostra indagine tra persone in cerca di occupazione o neo-assunte, tutte comunque con un livello di scolarizzazione medio-alta, e ci imbattiamo in Ilaria: «Mi sono laureata col massimo dei voti in Architettura già da cinque anni e ho frequentato più di un master presso gallerie d’arte di mezz’Europa. Ora lavoro in uno studio ad Aversa, lo stipendio è basso ma almeno ho iniziato. Se non fosse stato per l’amico di mio zio, starei ancora a far domande». Il colloquio con Ilaria si fa più intenso quando le chiedo se ha mai pensato di spostarsi al nord: «Cosa devo fare – si oppone la ragazza – abbandonare una madre anziana e un papà invalido per guadagnare non tanto, ma ciò che mi spetterebbe? Purtroppo non posso, devo accontentarmi di ciò che mi danno qui, ma quel politico si sta già impegnando per farmi aumentare lo stipendio o per trovarmi un altro posto»...continua
venerdì 5 novembre 2010
«NON SIAMO NOI AD ELEGGERLI»
Sandro Ruotolo, giornalista di “Anno Zero”, traccia il quadro del degrado della politica e del trasformismo elevato a sistema. Ma il Sud non rappresenta un caso particolare
di Pier Paolo De Brasi
Il vecchio male della politica italiana è duro a morire. Centocinquant’anni di unità non lo hanno scalfito, anzi oggi sembra più giovane che mai. Perché il trasformismo ritrova vigore nella politica di questo inizio millennio, ipocrita, malsana, fatta di figuranti che si atteggiano a prime donne. Ne parliamo con il noto giornalista di “Anno Zero” Sandro Ruotolo, tentando di scorgere bagliori di speranza e ottimismo.
Ruotolo, forse la domanda è banale e scontata, ma qual è la differenza tra i trasformisti di ieri e quelli di oggi?
Innanzitutto non siamo noi ad eleggere questi signori. Non ci sono più le preferenze e non ci sono più neanche i partiti, come li abbiamo conosciuti dal dopoguerra in poi. Solo la Lega assomiglia a un partito vecchio stampo, fatto di militanti presenti sul territorio. C’è sempre l’escamotage di dire che si rappresenta il popolo anche in un sistema maggioritario senza preferenze. Ma è chiaro che chi cambia casacca non ha l’impressione di tradire l’elettore. Adesso si aderisce prima al gruppo misto, per poi passare dall’altra parte. È inaccettabile, da un punto di vista etico e morale. Manca la politica con la “p” maiuscola.
Chi cambia casacca spesso è un politico di basso livello. Lo fa anche per uscire dall’anonimato e avere il suo momento di gloria?
Non c’è dubbio. Ma ci sono altri casi di politici di bassa qualità. La Lega ha un ricambio generazionale molto forte. Diventano capigruppo dei signor nessuno che però contano molto sul territorio. Nel Pdl invece, tra veline e massaggiatrici, i parlamentari non contano nulla e votano solo per ratificare ciò che ha deciso il capo. Oggi mancano dei passaggi fondamentali nella vita di un politico giovane, ma che è già arrivato in Parlamento. Non inizi, come si faceva una volta, attaccando i manifesti per strada o partecipando attivamente al congresso e alla vita di sezione. Questo si può trovare solo nella Lega e, in alcune zone, nel Pd.
Il carisma e la personalità di un leader, che si chiami Silvio Berlusconi, Umberto Bossi o chiunque altro, serve per attirare un politico da un partito a un altro?
Detto molto tra virgolette, la Lega è un partito leninista. Presenza assidua sul territorio e leader indiscutibile. Dall’altra parte c’è la figura carismatica e televisiva che ha noia della politica. Berlusconi definisce teatrino della politica la partecipazione e la discussione, anche aspra, che alla fine porta al consenso. La vicenda di Gianfranco Fini è emblematica. Il dissenso non è accettato. Dopodiché, quando la politica diventa lobby, cricca, si sta sempre con chi garantisce di più la casta, chi ti promette la rielezione sicura.
È solo un caso il fatto che, chi cambia partito, il più delle volte proviene dal Sud?
Non farei la semplificazione del meridionale che si schiera con il vincente di turno. Certo, Clemente Mastella è un esempio che racchiude in sé questo concetto, ma il trasformismo è un fenomeno molto più ampio. Ci sono stati anche dei parlamentari del nord che hanno cambiato casacca per scopi di poltrona. Penso a Lamberto Dini e ancora di più a Carlo Giovanardi, che è di Bologna. Al contrario, ciò che sta avvenendo in Sicilia mi sembra abbia una dimensione politica più importante. Da una parte Gianfranco Micciché, che si stacca dal Pdl per andare contro Angelino Alfano e Renato Schifani. Gruppi di dirigenti che, nel momento in cui la politica è meno alta, si fanno la guerra tra di loro. Dall’altra Raffaele Lombardo, i finiani e il laboratorio politico con il Pd...continua
di Pier Paolo De Brasi
Il vecchio male della politica italiana è duro a morire. Centocinquant’anni di unità non lo hanno scalfito, anzi oggi sembra più giovane che mai. Perché il trasformismo ritrova vigore nella politica di questo inizio millennio, ipocrita, malsana, fatta di figuranti che si atteggiano a prime donne. Ne parliamo con il noto giornalista di “Anno Zero” Sandro Ruotolo, tentando di scorgere bagliori di speranza e ottimismo.
Ruotolo, forse la domanda è banale e scontata, ma qual è la differenza tra i trasformisti di ieri e quelli di oggi?
Innanzitutto non siamo noi ad eleggere questi signori. Non ci sono più le preferenze e non ci sono più neanche i partiti, come li abbiamo conosciuti dal dopoguerra in poi. Solo la Lega assomiglia a un partito vecchio stampo, fatto di militanti presenti sul territorio. C’è sempre l’escamotage di dire che si rappresenta il popolo anche in un sistema maggioritario senza preferenze. Ma è chiaro che chi cambia casacca non ha l’impressione di tradire l’elettore. Adesso si aderisce prima al gruppo misto, per poi passare dall’altra parte. È inaccettabile, da un punto di vista etico e morale. Manca la politica con la “p” maiuscola.
Chi cambia casacca spesso è un politico di basso livello. Lo fa anche per uscire dall’anonimato e avere il suo momento di gloria?
Non c’è dubbio. Ma ci sono altri casi di politici di bassa qualità. La Lega ha un ricambio generazionale molto forte. Diventano capigruppo dei signor nessuno che però contano molto sul territorio. Nel Pdl invece, tra veline e massaggiatrici, i parlamentari non contano nulla e votano solo per ratificare ciò che ha deciso il capo. Oggi mancano dei passaggi fondamentali nella vita di un politico giovane, ma che è già arrivato in Parlamento. Non inizi, come si faceva una volta, attaccando i manifesti per strada o partecipando attivamente al congresso e alla vita di sezione. Questo si può trovare solo nella Lega e, in alcune zone, nel Pd.
Il carisma e la personalità di un leader, che si chiami Silvio Berlusconi, Umberto Bossi o chiunque altro, serve per attirare un politico da un partito a un altro?
Detto molto tra virgolette, la Lega è un partito leninista. Presenza assidua sul territorio e leader indiscutibile. Dall’altra parte c’è la figura carismatica e televisiva che ha noia della politica. Berlusconi definisce teatrino della politica la partecipazione e la discussione, anche aspra, che alla fine porta al consenso. La vicenda di Gianfranco Fini è emblematica. Il dissenso non è accettato. Dopodiché, quando la politica diventa lobby, cricca, si sta sempre con chi garantisce di più la casta, chi ti promette la rielezione sicura.
È solo un caso il fatto che, chi cambia partito, il più delle volte proviene dal Sud?
Non farei la semplificazione del meridionale che si schiera con il vincente di turno. Certo, Clemente Mastella è un esempio che racchiude in sé questo concetto, ma il trasformismo è un fenomeno molto più ampio. Ci sono stati anche dei parlamentari del nord che hanno cambiato casacca per scopi di poltrona. Penso a Lamberto Dini e ancora di più a Carlo Giovanardi, che è di Bologna. Al contrario, ciò che sta avvenendo in Sicilia mi sembra abbia una dimensione politica più importante. Da una parte Gianfranco Micciché, che si stacca dal Pdl per andare contro Angelino Alfano e Renato Schifani. Gruppi di dirigenti che, nel momento in cui la politica è meno alta, si fanno la guerra tra di loro. Dall’altra Raffaele Lombardo, i finiani e il laboratorio politico con il Pd...continua
ECCO LA CARD ANTIRACKET
Tano Grasso lancia in tutta Italia la sua proposta di una certificazione per aziende ed esercizi commerciali liberati dal pizzo. Una buona idea per invertire la rotta
di Mario Tudisco
Una card antiracket per invogliare i consumatori a fare le loro compere solo negli esercizi commerciali che pubblicamente ammettono di non voler pagare il pizzo a nessuna delle associazioni criminali operanti in Italia e all’estero. Tano Grasso, presidente del Far (Fronte antiracket) è in tour in tanti centri del Meridione sia per esporre il progetto che è alla base della card, sia per continuare a sensibilizzare gli imprenditori a ribellarsi a ogni forma di estorsione.
«Questa carta particolare serve a porre le condizioni basilari per creare un circolo virtuoso. Sono i semplici cittadini a optare per un’economia sana scegliendo di spendere presso quei negozi che escludono, in maniera categorica, di poter sottostare a ogni forma di pizzo. O che hanno già denunciato le minacce subite. Immagino che ci vorrà del tempo prima di inculcare bene questo concetto nella testa della gente ma, come testimonia il mio passato e quello dell’antiracket, tante missioni impossibili sono state realizzate».
Dottore Grasso, al centro del dibattito politico c’è una possibile nuova normativa in materia di estorsione, che spacca in due l’opinione pubblica. C’è chi vorrebbe sanzionare penalmente gli imprenditori che non denunciano il pizzo e chi vorrebbe premiarli qualora denunciassero alle forze dell’ordine nomi e cognomi degli estorsori. Qual è il suo parere a tal proposito?
Credo si tratti di due ipotesi entrambe errate. Da un lato, si è visto già che neanche le accuse di favoreggiamento riescono a indurre commercianti e imprenditori a denunciare pubblicamente gli estorsori. Figuriamoci, dunque, se un tale effetto possa essere indotto dalla semplice minaccia di una sanzione penale. Dall’altro canto, favorire coloro che denunciano il racket significa esporli maggiormente a possibili ritorsioni. Una cosa, infatti, è che un imprenditore vada in un’aula di Tribunale e indichi un suo estorsore, il quale penserà, realisticamente, di subire un incidente di percorso nella sua mala-attività e si metterà l’anima in pace. Ben altra cosa, invece, sarebbe il caso in cui l’estorsore sappia che chi lo sta accusando non difende solo gli interessi legittimi della sue attività ma che, in qualche modo, trarrà vantaggi di ogni genere dall’atto di accusa che sta facendo. Ebbene, in casi come questi mafia, camorra e ’ndrangheta non perdonano. E i loro associati hanno una memoria lunghissima come quella degli elefanti.
In che modo, dunque, si può tentare di arginare questo fenomeno inquietante?
Io penserei ad almeno due ipotesi che mi sembrano estremamente efficaci. La prima: punire coloro che non denunciano le estorsioni con l’esclusione di queste ditte o società, per tre anni, da tutti gli appalti pubblici. Guardi bene che se entrasse in vigore una normativa del genere non si potrebbero ripetere quei grandissimi scandali economici che si chiamano autostrada Salerno-Reggio Calabria o ricostruzione post terremoto in Campania. Alla fine, tutte le grandi imprese sarebbero costrette a vuotare il sacco per evitare il loro crollo in borsa. La seconda ipotesi sensata è, per l’appunto, quella della card antiracket, che potrebbe mettere in rete tutti gli operatori economici dando loro la giusta visibilità e, soprattutto, la fiducia degli italiani onesti e perbene che restano, sine dubio, la stragrande maggioranza della nostra nazione...continua
di Mario Tudisco
Una card antiracket per invogliare i consumatori a fare le loro compere solo negli esercizi commerciali che pubblicamente ammettono di non voler pagare il pizzo a nessuna delle associazioni criminali operanti in Italia e all’estero. Tano Grasso, presidente del Far (Fronte antiracket) è in tour in tanti centri del Meridione sia per esporre il progetto che è alla base della card, sia per continuare a sensibilizzare gli imprenditori a ribellarsi a ogni forma di estorsione.
«Questa carta particolare serve a porre le condizioni basilari per creare un circolo virtuoso. Sono i semplici cittadini a optare per un’economia sana scegliendo di spendere presso quei negozi che escludono, in maniera categorica, di poter sottostare a ogni forma di pizzo. O che hanno già denunciato le minacce subite. Immagino che ci vorrà del tempo prima di inculcare bene questo concetto nella testa della gente ma, come testimonia il mio passato e quello dell’antiracket, tante missioni impossibili sono state realizzate».
Dottore Grasso, al centro del dibattito politico c’è una possibile nuova normativa in materia di estorsione, che spacca in due l’opinione pubblica. C’è chi vorrebbe sanzionare penalmente gli imprenditori che non denunciano il pizzo e chi vorrebbe premiarli qualora denunciassero alle forze dell’ordine nomi e cognomi degli estorsori. Qual è il suo parere a tal proposito?
Credo si tratti di due ipotesi entrambe errate. Da un lato, si è visto già che neanche le accuse di favoreggiamento riescono a indurre commercianti e imprenditori a denunciare pubblicamente gli estorsori. Figuriamoci, dunque, se un tale effetto possa essere indotto dalla semplice minaccia di una sanzione penale. Dall’altro canto, favorire coloro che denunciano il racket significa esporli maggiormente a possibili ritorsioni. Una cosa, infatti, è che un imprenditore vada in un’aula di Tribunale e indichi un suo estorsore, il quale penserà, realisticamente, di subire un incidente di percorso nella sua mala-attività e si metterà l’anima in pace. Ben altra cosa, invece, sarebbe il caso in cui l’estorsore sappia che chi lo sta accusando non difende solo gli interessi legittimi della sue attività ma che, in qualche modo, trarrà vantaggi di ogni genere dall’atto di accusa che sta facendo. Ebbene, in casi come questi mafia, camorra e ’ndrangheta non perdonano. E i loro associati hanno una memoria lunghissima come quella degli elefanti.
In che modo, dunque, si può tentare di arginare questo fenomeno inquietante?
Io penserei ad almeno due ipotesi che mi sembrano estremamente efficaci. La prima: punire coloro che non denunciano le estorsioni con l’esclusione di queste ditte o società, per tre anni, da tutti gli appalti pubblici. Guardi bene che se entrasse in vigore una normativa del genere non si potrebbero ripetere quei grandissimi scandali economici che si chiamano autostrada Salerno-Reggio Calabria o ricostruzione post terremoto in Campania. Alla fine, tutte le grandi imprese sarebbero costrette a vuotare il sacco per evitare il loro crollo in borsa. La seconda ipotesi sensata è, per l’appunto, quella della card antiracket, che potrebbe mettere in rete tutti gli operatori economici dando loro la giusta visibilità e, soprattutto, la fiducia degli italiani onesti e perbene che restano, sine dubio, la stragrande maggioranza della nostra nazione...continua
Iscriviti a:
Post (Atom)