venerdì 4 giugno 2010

«SULLE INTERCETTAZIONI NON DICONO LA VERITÀ»

Antonio Ingroia, Procuratore antimafia a Palermo, spiega perché il provvedimento provocherà una battuta d’arresto alla lotta alla mafia. Anche perseguire i clan campani sarà più difficile


di Mario Tudisco


«Sì, penso proprio che la mafia continuerà a percorrere – anche dopo la cattura di Bernardo Provenzano – la strada dell’inabissamento, che non prevede omicidi eclatanti e che dà modo ai colletti bianchi di continuare a fare business fuori dal territorio siciliano. Adesso, la vera sfida non è più solo quella di individuare e arrestare vecchi e nuovi boss, ma consiste, soprattutto, nella ricerca dei colletti bianchi, imprenditori e politici che sono conniventi con le organizzazioni criminali. In quest’ottica, la limitazione dell’uso delle intercettazioni sarà devastante».
Antonio Ingroia (nella foto), pupillo di Paolo Borsellino, oggi procuratore aggiunto antimafia a Palermo, ha da poco pubblicato un libro dal titolo emblematico: C’era una volta l’intercettazione. Lo abbiamo intervistato in occasione di una sua recente visita nel Casertano.
Dottor Ingroia, quali sono le motivazioni che la inducono ad affermare che la limitazione delle intercettazioni ai soli casi di gravi indizi di reato potrebbe essere devastante nella lotta alle associazioni criminali?
Guardi, in tantissimi casi da me seguiti, la matrice mafiosa degli atti illeciti non è che sia stata trovata immediatamente. Spiego meglio: in moltissime indagini abbiamo capito che a muoversi era la mafia solo a seguito di intercettazioni a carico di elementi che non appartenevano alle famiglie mafiose, ma che erano con esse in contatto. Le intercettazioni, sia telefoniche sia ambientali, furono quindi essenziali per capire chi erano i soggetti reali che giravano intorno a determinati interessi. Detto questo, se la limitazione dell’uso delle intercettazioni telefoniche diverrà legge saremo in grossi guai per un semplicissimo motivo, di cui i legislatori non hanno voluto tenere conto. Potremmo intercettare solo i soliti noti ma non i soliti ignoti. Nel senso che saremmo tutti autorizzati a intercettare, faccio per dire, Totò Riina, se uscisse dal carcere, ma non i colletti bianchi, non gli imprenditori conniventi, non i politici amici degli amici che indirizzano e propongono gli affari di Cosa nostra. E mi permetto di aggiungere altro: sa come si arrivò al maxi processo e all’estradizione di Tommaso Buscetta? Tramite un’intercettazione telefonica tra alcuni esponenti della sconfitta famiglia mafiosa dei Bontade, che telefonarono in Brasile a Buscetta per chiedere aiuto e consigli. Solo così capimmo chi era davvero Buscetta e il peso che aveva all’interno di Cosa nostra…
Si dice, però, che in Italia si faccia un uso esagerato e distorto delle intercettazioni. Per non parlare poi dei costi astronomici…
Ecco, quello che lei riferisce è l’asse portante di un’opera di disinformazione mediatica tesa a depotenziare il ruolo della magistratura, con la scusa banale delle intercettazioni. Allora, iniziamo subito a precisare che non è affatto vero che l’Italia sia un Paese poco garantista: fra le nazioni europee siamo i più garantisti di tutti. Per quanto riguarda i costi, che pure ci sono, si tratta di cifre accettabilissime a carico dei contribuenti. Si pensi solo a quanto economicamente si recupera per la collettività in termini di confische, sequestri e prevenzioni. Insomma, bisognerebbe aver maggior rispetto dei magistrati anche perché la storia italiana del dopoguerra è strettamente legata alla storia criminale del paese. Inoltre, lo dico con molta amarezza personale, pare che non si voglia tenere in nessun conto il sangue versato da tanti miei colleghi e da tanti esponenti delle forze dell’ordine per garantire civiltà e democrazia.
Oggi – per quanto paradossale possa sembrare – pare che l’unico problema nazionale sia quello della giustizia e dell’uso delle intercettazioni. Se non ci fosse da piangere, ci sarebbe davvero da ridere nell’Italia del 2010... continua

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