venerdì 4 giugno 2010

FEDERALISMO, LA CAMPANIA È IN DEFICIT

Quando entrerà in vigore il nuovo sistema approvato dal Governo in carica, scopriremo un ammanco di circa sette miliardi. I servizi costeranno mille euro in più per famiglia


di Raffaele de Chiara


«Una giornata storica», afferma il Ministro dell’Interno Roberto Maroni nell’aula del Senato mentre l’intero popolo della Lega Nord, ebbro di gioia, festeggia. I numeri della "vittoria leghista": 154 voti a favore, 6 contrari e 87 astenuti, segnano l’introduzione nel nostro ordinamento del federalismo fiscale; era il 22 aprile del 2009. «Il provvedimento farà sì che i soldi delle tasse resteranno sul territorio e nessuno più deciderà a Roma come saranno spesi», dichiarava il capogruppo al Senato Federico Bricolo, distante solo qualche passo dall’ufficio di Rosi Mauro, vicepresidente di Palazzo Madama, dove si degustavano ottimi biscottini colorati di verde. Decisamente più cauto il Pd che, con Marco Follini, faceva notare: «Segnalo ai cultori del federalismo che la sua rigorosa osservanza richiederebbe di partire da quello istituzionale e non da quello fiscale».
Da allora è trascorso un anno, poco o nulla è cambiato, il provvedimento per entrare in vigore necessita dei decreti attuativi del Governo riguardanti l’armonizzazione dei sistemi di calcolo dei bilanci pubblici da emanarsi entro il 2011, ma già ci si interroga su quale possa essere l’impatto sull’economia delle diverse regioni. Nel nostro caso, della Campania.
Secondo l’assessore regionale al Bilancio uscente, Mariano D’Antonio, il federalismo fiscale «potrà essere da stimolo al buon governo, ma nell’immediato sarà senz’altro una medicina molto amara se non indigesta». Seguendo il ragionamento di D’Antonio: «La riforma fiscale farebbe sì che ogni territorio trattenga per la spesa tutte e solo le entrate pubbliche che è capace di alimentare ma, così facendo, nel centro-nord la spesa pubblica balzerebbe verso l’altro e nel Mezzogiorno dovrebbe scendere ancora più in basso, a meno che le entrate pubbliche non aumentino al sud più di quanto è necessario. Nella versione più morbida – argomenta ancora l’economista – il federalismo fiscale manterrebbe qualche redistribuzione delle entrate riscosse al centro-nord perché siano dirottate a finanziare la spesa pubblica nel Mezzogiorno.
Ma a quanto ammonterebbe la redistribuzione e come sarebbe dirottata al sud è materia tutta da esplorare».
Ma qual è lo stato dell’economia della Campania? Siamo in grado di reggere l’impatto brutale con il nuovo sistema? A leggere le cifre c’è davvero poco di cui stare allegri. Attualmente il residuo fiscale, ossia la differenza tra quanto i contribuenti della Regione versano allo Stato e il denaro che torna a Palazzo Santa Lucia per essere utilizzato al servizio della collettività, è in negativo. La Campania versa circa 47 miliardi e ne riceve 53,5, con una differenza di circa sette miliardi.
Non va meglio per il dato pro capite. Ogni contribuente versa ottomila euro e lo Stato ne spende novemila, con una differenza di mille euro per famiglia. È messa peggio della Campania solo la Sicilia, che presenta un passivo di 13 miliardi mentre sette soltanto sono le Regioni che vantano un saldo positivo: tra queste svetta la Lombardia con 38 miliardi... continua

«SULLE INTERCETTAZIONI NON DICONO LA VERITÀ»

Antonio Ingroia, Procuratore antimafia a Palermo, spiega perché il provvedimento provocherà una battuta d’arresto alla lotta alla mafia. Anche perseguire i clan campani sarà più difficile


di Mario Tudisco


«Sì, penso proprio che la mafia continuerà a percorrere – anche dopo la cattura di Bernardo Provenzano – la strada dell’inabissamento, che non prevede omicidi eclatanti e che dà modo ai colletti bianchi di continuare a fare business fuori dal territorio siciliano. Adesso, la vera sfida non è più solo quella di individuare e arrestare vecchi e nuovi boss, ma consiste, soprattutto, nella ricerca dei colletti bianchi, imprenditori e politici che sono conniventi con le organizzazioni criminali. In quest’ottica, la limitazione dell’uso delle intercettazioni sarà devastante».
Antonio Ingroia (nella foto), pupillo di Paolo Borsellino, oggi procuratore aggiunto antimafia a Palermo, ha da poco pubblicato un libro dal titolo emblematico: C’era una volta l’intercettazione. Lo abbiamo intervistato in occasione di una sua recente visita nel Casertano.
Dottor Ingroia, quali sono le motivazioni che la inducono ad affermare che la limitazione delle intercettazioni ai soli casi di gravi indizi di reato potrebbe essere devastante nella lotta alle associazioni criminali?
Guardi, in tantissimi casi da me seguiti, la matrice mafiosa degli atti illeciti non è che sia stata trovata immediatamente. Spiego meglio: in moltissime indagini abbiamo capito che a muoversi era la mafia solo a seguito di intercettazioni a carico di elementi che non appartenevano alle famiglie mafiose, ma che erano con esse in contatto. Le intercettazioni, sia telefoniche sia ambientali, furono quindi essenziali per capire chi erano i soggetti reali che giravano intorno a determinati interessi. Detto questo, se la limitazione dell’uso delle intercettazioni telefoniche diverrà legge saremo in grossi guai per un semplicissimo motivo, di cui i legislatori non hanno voluto tenere conto. Potremmo intercettare solo i soliti noti ma non i soliti ignoti. Nel senso che saremmo tutti autorizzati a intercettare, faccio per dire, Totò Riina, se uscisse dal carcere, ma non i colletti bianchi, non gli imprenditori conniventi, non i politici amici degli amici che indirizzano e propongono gli affari di Cosa nostra. E mi permetto di aggiungere altro: sa come si arrivò al maxi processo e all’estradizione di Tommaso Buscetta? Tramite un’intercettazione telefonica tra alcuni esponenti della sconfitta famiglia mafiosa dei Bontade, che telefonarono in Brasile a Buscetta per chiedere aiuto e consigli. Solo così capimmo chi era davvero Buscetta e il peso che aveva all’interno di Cosa nostra…
Si dice, però, che in Italia si faccia un uso esagerato e distorto delle intercettazioni. Per non parlare poi dei costi astronomici…
Ecco, quello che lei riferisce è l’asse portante di un’opera di disinformazione mediatica tesa a depotenziare il ruolo della magistratura, con la scusa banale delle intercettazioni. Allora, iniziamo subito a precisare che non è affatto vero che l’Italia sia un Paese poco garantista: fra le nazioni europee siamo i più garantisti di tutti. Per quanto riguarda i costi, che pure ci sono, si tratta di cifre accettabilissime a carico dei contribuenti. Si pensi solo a quanto economicamente si recupera per la collettività in termini di confische, sequestri e prevenzioni. Insomma, bisognerebbe aver maggior rispetto dei magistrati anche perché la storia italiana del dopoguerra è strettamente legata alla storia criminale del paese. Inoltre, lo dico con molta amarezza personale, pare che non si voglia tenere in nessun conto il sangue versato da tanti miei colleghi e da tanti esponenti delle forze dell’ordine per garantire civiltà e democrazia.
Oggi – per quanto paradossale possa sembrare – pare che l’unico problema nazionale sia quello della giustizia e dell’uso delle intercettazioni. Se non ci fosse da piangere, ci sarebbe davvero da ridere nell’Italia del 2010... continua

«MA NAPOLI PUÒ RISORGERE»

Il porto potrebbe trasformare la città nella capitale del Mediterraneo, il consorzio delle cinque università darebbe lustro al Meridione. Ecco le idee del filosofo partenopeo Aldo Masullo


di Silvia De Geronimo


Il filosofo Aldo Masullo (nella foto), figura di prestigio del panorama culturale campano e italiano, ha accettato di rilasciare un’intervista esclusiva a "Fresco di Stampa".
Professore, cosa è oggi la regione Campania?
Non si può fare altro che sottolinearne lo stato di decadenza e, purtroppo, non si tratta di un’interpretazione, ma di un ritratto oggettivo, tracciato con gli studi dei grandi istituti di ricerca economica. Dalle loro statistiche si rileva che negli ultimi cinquant’anni le diverse zone sottosviluppate interne agli Stati europei hanno tutte raggiunto i livelli di quelle che un tempo le distanziavano. Tutte tranne l’Italia meridionale, e in particolare la Campania, e ciò nonostante l’imponente somma dei finanziamenti aggiuntivi ottenuti. A questo si accompagna una sensazione diffusa di disgregazione del tessuto sociale e civile, di cui la frantumazione politica è al tempo stesso effetto e causa.
E le province di Napoli e Caserta?
Napoli è certamente una città che ha grandi risorse. Penso al porto, penso ad una certa cultura tecnologica: abbiamo antiche università ed insegnamenti scientifici di alto livello, abbiamo cioè degli strumenti che possono essere utilizzati per un cambiamento di carattere economico. Ciò che manca è una classe dirigente che abbia mentalità imprenditoriale. Caserta poteva invece seguire la sua tradizione, poteva svilupparsi sull’allevamento del bestiame, però anche lì non c’è stata una vera e propria iniziativa.
D’altra parte questo mancato sviluppo ha costituito il vuoto nel quale ha trovato facile collocazione l’industria criminale.
Storicamente questa carenza di dinamismo economico dove affonda le radici?
A mio avviso questa mancanza dipende da un momento storico preciso, cioè dal fatto che il Regno di Napoli ha conosciuto l’iniziativa economica statale molto prima della fondazione dell’Iri e ciò ha dissuaso a monte l’iniziativa privata.
Questo significa che, alla fine del ’700, da una parte Carlo III promuoveva una serie di sviluppi urbanistici e industriali di altissimo livello, dall’altra i nostri proprietari terrieri se ne stavano tranquillamente a fare i cortigiani del re.
Nel frattempo i loro colleghi del nord si andavano trasformando da sfruttatori di contadini in imprenditori.
Come descriverebbe la parabola politica dell’ex presidente Antonio Bassolino, a partire da quella che fu la sua "primavera" del ’93, in qualità di sindaco?
La primavera bassoliniana fu un’illusione e una delusione: non è con il Maggio dei monumenti che si ricostruisce un’economia, non è con le riverniciature dei centri storici che si recuperano aree come Scampia. Bassolino ha inoltre perduto l’occasione di promuovere un rilancio democratico, di costruire un tramite tra cittadini e istituzioni. Questo elemento di insufficienza democratica si lega, tra l’altro, al mancato sviluppo economico perché, per esempio, discutendo apertamente con la cittadinanza riguardo la gestione dei finanziamenti europei, si sarebbe potuto costruire un progetto ben definito e funzionale a una ripresa complessiva, anziché spendere a pioggia... continua