Siti archeologici preziosissimi e in gran quantità si concentrano nel territorio di Caserta e Napoli. Ma per lo Stato sono un fastidio, una rogna da gestire. E così i tombaroli ne approfittano
di Brunella Nobile
e Luisa Smeragliuolo Perrotta
Il territorio campano che si snoda lungo l’antica via consolare Appia è un territorio ricco dal punto di vista archeologico di reperti di inestimabile valore. Nessuna meraviglia, quindi, che questa notizia abbia valicato i confini della specializzazione accademica per giungere fino alle orecchie di tombaroli organizzati, che con un’attività redditizia come la profanazione delle tombe e dei siti archeologici dell’Alto casertano hanno messo in piedi un giro di ricettazione conclusosi con l’arresto per molti di loro nell’ambito dell’operazione Ro.Vi.Na., che nel mese di gennaio scorso ha portato al sequestro di 633 reperti archeologici destinati al mercato clandestino.
Con spilloni e metal detector, sono anni che i tombaroli sondano il terreno e rubano senza nascondersi più di tanto: alcuni, più amanti dell’arte di altri, espongono nelle proprie case ciò che trovano.
Anni di deprivazione hanno reso i siti, ufficiali e non, un po’ più poveri e un po’ meno interessanti, eppure le tracce del passato riaffiorano, resistono all’incuria e ai malintenzionati. Da Alife a Capua, da Santa Maria Capua Vetere ad Aversa, da Maddaloni a Calvi Risorta, fino a Succivo e oltre i siti archeologici ufficiali – nove in tutto in Terra di Lavoro (Alife, Calvi Risorta, Maddaloni, Roccamonfina, Santa Maria Capua Vetere, Teano, Agro atellano, Sessa Aurunca, Mondragone, cui si aggiunge la preziosa Liternum nel territorio giuglianese), seppure fuori dalle rotte turistiche più in auge, come Pompei, sono curati, tenuti in vita e visitati dal pubblico anche grazie ai musei disseminati sul territorio. Il problema è tutto il resto della provincia: come Carinola e Cellole, i cui resti romani sono in condizioni di degrado, come Calvi, l’antica Cales, che avrebbe bisogno di nuovi scavi e sorveglianza per quello che c’è, liberamente visitabile e più esposto all’attività di indefessi tombaroli, così come Francolise, la cui necropoli, in zona Montanaro, è una distesa di buche e di tombe violate.
I resti sono romani, sanniti, talvolta etruschi e in alcuni casi risalgono anche ad epoche più remote, paleolitico e neolitico: come a Tora e Piccilli, dove sono visitabili le “Ciampate del Diavolo”, ovvero le impronte di uomini primitivi risalenti a 56 milioni di anni fa, o a Liberi, l’antica Trebula, dove sono stati trovati pesci fossili risalenti a 110 milioni di anni fa. I lavori per la realizzazione della linea ferroviaria dell’alta velocità hanno portato alla luce, solo lungo la tratta Roma-Napoli, ben 149 siti archeologici: in media un sito ogni 500 metri lungo i primi 200 km della tratta. Nel Casertano, oltre ai già citati siti archeologici di Teano e Capua, dove sono stati rinvenuti una struttura termale di età imperiale e una villa rustica, le altre campagne di scavo hanno consentito l’individuazione di un sito con differenti fasi di vita dall’età repubblicana, nei pressi del Comune di Sparanise (Briccelle), e una villa rustica di età romana a Vitulazio.
Testimonianze di vita pre e protostorica fino all’età romana sono state rintracciate anche nei Comuni a nord di Napoli...continua
giovedì 3 febbraio 2011
«IL BENE PUBBLICO È DIVENTATO MARGINALE»
Svendere il patrimonio artistico nazionale, come vorrebbe Tremonti, non è un’operazione conveniente. Parola di Salvatore Settis, uno dei maggiori archeologi e storici dell’arte del nostro paese
di Francesco Falco
Già direttore del Getty Research Institute di Los Angeles e della Scuola Normale di Pisa, titolare a Madrid della «Cátedra del Prado», Salvatore Settis è uno dei più importanti archeologi e storici dell’arte del nostro Paese. Da poche settimane è in libreria il suo ultimo saggio, Paesaggio, Costituzione, cemento (Einaudi, pp. 326, 19 euro).
Nella triste visione della dissoluzione del patrimonio pubblico e del paesaggio italiano, la sua riflessione acutissima e rigorosa è una luce preziosa per illuminare un principio fondamentale adombrato, ma ribadito di continuo anche nel testo sopraccennato: publica utilitas, interesse collettivo.
In Italia viviamo un paradosso: da un lato c’è il tasso di crescita demografica più basso d’Europa, dall’altro il più alto tasso di consumo del territorio d’Europa. Nel suo saggio, lei punta l’indice contro una superfetazione normativa che moltiplica le competenze suddividendole tra Comuni, Province, Regioni e Stato.
La sovrapposizione normativa è certamente una delle condizioni di contorno che rende possibile l’eccesso di cementificazione che si registra nel nostro Paese. Il punto centrale, tuttavia, risiede nella mentalità arcaica, un retaggio contadino, che vorrebbe quello nel mattone come l’investimento più sicuro e più proficuo. È una falsità, perché i risparmi indirizzati in investimenti improduttivi non fanno che accrescere il numero di appartamenti invenduti, quando invece potremmo reinvestire in settori più produttivi, come la ricerca scientifica, capitali che vengono immobilizzati. Con il rischio, continuando di questo passo, di assistere in Italia alla medesima bolla immobiliare che ha colpito altri Paesi, con conseguenze molto gravi.
La moltiplicazione di norme fa il paio con l’alleggerimento del peso specifico di altre e con l’azione in deroga, in una sorta di stato di eccezione permanente.
Infatti. A un certo punto si crea attorno al cittadino una foresta di norme e di veti che per poterne uscire bisogna agire in deroga. Non si interviene mai con leggi che abbiano una efficacia e che siano in armonia con altre leggi, ma si opera in deroga e si genera una sensazione di confusione. Il messaggio che passa è, poi, che le norme non ci sono e ognuno può fare quel che vuole, agendo da furbo.
La svendita del territorio è frutto, pare di capire, di un uso distorto degli oneri di urbanizzazione da parte dei comuni, che li utilizzano per questioni ordinarie, causa mancanza di liquidità.
È un fenomeno di cui si parla pochissimo, ma è fondamentale.
Gli oneri di urbanizzazione – secondo quanto prevedeva la legge Bucalossi – venivano pagati dal cittadino per consentire l’erogazione di servizi come l’elettricità, le fogne: addirittura era previsto un conto separato per i comuni, che potevano usare quelle risorse solo per determinate finalità. Un governo di centrosinistra modificò invece la normativa, trasferendo alla spesa corrente queste risorse. Il governo Berlusconi ha alimentato questo meccanismo abolendo l’Ici: in mancanza di contributi diretti, i comuni da qualche parte dovranno pur trovare le risorse per tirare avanti. È un meccanismo perverso perché vuol dire che il comune, per disporre di una certa cifra per l’attività ordinaria, pianifica l’anno prima quante costruzioni vanno fatte l’anno dopo. Inoltre, questo scatena una serie di provvedimenti che, a valanga, causano la distruzione del paesaggio, sia pubblico che privato.
Publica utilitas, quale superiore utilità dell’interesse collettivo, sembra un principio offuscato non da una singola legge ma da un orientamento di lungo corso: il pubblico, più che essere di tutti, sembra concepito come “non-privato”, non riconducibile ad un interesse definito e dunque agevolmente trascurabile. Il “caso Pompei” insegna.
Sì, è un’osservazione molto giusta. L’idea di pubblico bene, che in Italia ha una tradizione lunga e affonda le radici nel Diritto romano, sta diventando marginale, in coerenza con uno Stato segnato da modelli come il Thatcherismo e il Reaganismo.Visto che questi modelli hanno prodotto le crisi in cui ci troviamo, credo che sarebbe il momento di accorgersi che l’iperliberismo – questa etica per cui esiste solo l’individuo e non la società – va certamente corretto. È un momento, questo, in cui molte teorie economiche sono orientate a credere che quello che serve è uno Stato più forte, e non meno Stato. Svendere, come vorrebbe Tremonti, parte del patrimonio pubblico per ripianare il debito pubblico, dubito sia un’idea conveniente...continua
di Francesco Falco
Già direttore del Getty Research Institute di Los Angeles e della Scuola Normale di Pisa, titolare a Madrid della «Cátedra del Prado», Salvatore Settis è uno dei più importanti archeologi e storici dell’arte del nostro Paese. Da poche settimane è in libreria il suo ultimo saggio, Paesaggio, Costituzione, cemento (Einaudi, pp. 326, 19 euro).
Nella triste visione della dissoluzione del patrimonio pubblico e del paesaggio italiano, la sua riflessione acutissima e rigorosa è una luce preziosa per illuminare un principio fondamentale adombrato, ma ribadito di continuo anche nel testo sopraccennato: publica utilitas, interesse collettivo.
In Italia viviamo un paradosso: da un lato c’è il tasso di crescita demografica più basso d’Europa, dall’altro il più alto tasso di consumo del territorio d’Europa. Nel suo saggio, lei punta l’indice contro una superfetazione normativa che moltiplica le competenze suddividendole tra Comuni, Province, Regioni e Stato.
La sovrapposizione normativa è certamente una delle condizioni di contorno che rende possibile l’eccesso di cementificazione che si registra nel nostro Paese. Il punto centrale, tuttavia, risiede nella mentalità arcaica, un retaggio contadino, che vorrebbe quello nel mattone come l’investimento più sicuro e più proficuo. È una falsità, perché i risparmi indirizzati in investimenti improduttivi non fanno che accrescere il numero di appartamenti invenduti, quando invece potremmo reinvestire in settori più produttivi, come la ricerca scientifica, capitali che vengono immobilizzati. Con il rischio, continuando di questo passo, di assistere in Italia alla medesima bolla immobiliare che ha colpito altri Paesi, con conseguenze molto gravi.
La moltiplicazione di norme fa il paio con l’alleggerimento del peso specifico di altre e con l’azione in deroga, in una sorta di stato di eccezione permanente.
Infatti. A un certo punto si crea attorno al cittadino una foresta di norme e di veti che per poterne uscire bisogna agire in deroga. Non si interviene mai con leggi che abbiano una efficacia e che siano in armonia con altre leggi, ma si opera in deroga e si genera una sensazione di confusione. Il messaggio che passa è, poi, che le norme non ci sono e ognuno può fare quel che vuole, agendo da furbo.
La svendita del territorio è frutto, pare di capire, di un uso distorto degli oneri di urbanizzazione da parte dei comuni, che li utilizzano per questioni ordinarie, causa mancanza di liquidità.
È un fenomeno di cui si parla pochissimo, ma è fondamentale.
Gli oneri di urbanizzazione – secondo quanto prevedeva la legge Bucalossi – venivano pagati dal cittadino per consentire l’erogazione di servizi come l’elettricità, le fogne: addirittura era previsto un conto separato per i comuni, che potevano usare quelle risorse solo per determinate finalità. Un governo di centrosinistra modificò invece la normativa, trasferendo alla spesa corrente queste risorse. Il governo Berlusconi ha alimentato questo meccanismo abolendo l’Ici: in mancanza di contributi diretti, i comuni da qualche parte dovranno pur trovare le risorse per tirare avanti. È un meccanismo perverso perché vuol dire che il comune, per disporre di una certa cifra per l’attività ordinaria, pianifica l’anno prima quante costruzioni vanno fatte l’anno dopo. Inoltre, questo scatena una serie di provvedimenti che, a valanga, causano la distruzione del paesaggio, sia pubblico che privato.
Publica utilitas, quale superiore utilità dell’interesse collettivo, sembra un principio offuscato non da una singola legge ma da un orientamento di lungo corso: il pubblico, più che essere di tutti, sembra concepito come “non-privato”, non riconducibile ad un interesse definito e dunque agevolmente trascurabile. Il “caso Pompei” insegna.
Sì, è un’osservazione molto giusta. L’idea di pubblico bene, che in Italia ha una tradizione lunga e affonda le radici nel Diritto romano, sta diventando marginale, in coerenza con uno Stato segnato da modelli come il Thatcherismo e il Reaganismo.Visto che questi modelli hanno prodotto le crisi in cui ci troviamo, credo che sarebbe il momento di accorgersi che l’iperliberismo – questa etica per cui esiste solo l’individuo e non la società – va certamente corretto. È un momento, questo, in cui molte teorie economiche sono orientate a credere che quello che serve è uno Stato più forte, e non meno Stato. Svendere, come vorrebbe Tremonti, parte del patrimonio pubblico per ripianare il debito pubblico, dubito sia un’idea conveniente...continua
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intervista a Salvatore Settis
«L’OGGETTIVITÀ? PER FORTUNA NON ESISTE»
Eugenio Scalfari, maestro di generazioni di giornalisti, racconta le difficoltà della professione oggi. Il futuro è ancora nella formula inventata da lui: approfondimento e onestà dei punti di vista
di Raffaele de Chiara
La crisi delle vendite dei giornali come prodotto dell’avvento dei nuovi media e l’oggettività dell’informazione letta alla luce di una diversa concezione. Eugenio Scalfari, classe 1924, tra gli ultimi grandi giornalisti del secolo scorso ancora in attività, non usa mezzi termini nell’analizzare lo stato dell’arte del giornalismo in Italia. «L’abbassamento delle vendite dei quotidiani, e soprattutto dei periodici, non avviene solo nel nostro Paese, ma in tutto l’Occidente. Non credo che ciò dipenda dall’incapacità dei giornalisti, sarebbe infatti assai strano che in metà del pianeta tutti insieme fossero diventati incapaci». Il naturale cipiglio dei modi, accompagnato da un eloquio asciutto e forbito sono quelli di sempre, la disponibilità al dialogo anche. «La vera causa del calo è la concorrenza della televisione e di internet, è la società attuale che sta cambiando. Al giorno d’oggi, è sempre più evidente la rinuncia alla parola scritta, in favore di una comunicazione fondata principalmente sui suoni e sulle immagini».
Per alcuni, la causa dell’allontanamento dei lettori dalla carta stampata è dovuta anche all’abbandono, da parte di quest’ultima, di un modo di fare giornalismo “oggettivo”. «L’obiettività dei fatti è una finzione – afferma perentorio Scalfari –. Gli avvenimenti sono letti dai giornalisti secondo il loro punto di vista, ossia sulla base dell’interpretazione che loro ne danno». Non crede però che, così facendo, possa venire in qualche modo meno il rispetto e la tutela di chi legge? «Niente affatto, perché l’obiettività è cosa diversa rispetto ad un irraggiungibile distacco da ciò che si racconta. Essa consiste semplicemente nel rendere esplicito il punto di vista da cui ciascuno dei professionisti dell’informazione guarda gli avvenimenti. È solo questo quindi – sottolinea con forza – che va reso esplicito affinché i lettori possano decodificare le varie realtà dei giornali e dei giornalisti».
Una lettura dell’obiettività la sua, suffragata ancora di più dal notevole successo de “la Repubblica”, il quotidiano che fondò nel 1976 e che, per primo in Italia, ha cambiato il modo di fare informazione.
Non più soltanto cronaca, ma analisi e approfondimento secondo le diverse sensibilità di chi scrive. «Il futuro è ancora in quella formula. Non è certamente un caso se essa è stata adottata da tutti i giornali nazionali, sia nel nostro Paese che nel resto d’Europa». Da qualche anno a questa parte è sempre più diffuso il “Citizen Journalism”, ovvero un tipo di giornalismo detto anche partecipativo, che contempla un ruolo dei lettori sempre più attivo nella ricerca e nella divulgazione delle notizie. I suoi detrattori lo catalogano come fenomeno di costume, i suoi fautori come una risorsa indispensabile. «Il fenomeno cui lei fa riferimento si fonda interamente sulla comunicazione via Internet, con le varie forme dei social network, “Facebook”, “You Tube” e altre simili: non credo che sia semplicemente un fenomeno di costume, ma una realtà con cui tutti i giornali devono e dovranno confrontarsi»...continua
di Raffaele de Chiara
La crisi delle vendite dei giornali come prodotto dell’avvento dei nuovi media e l’oggettività dell’informazione letta alla luce di una diversa concezione. Eugenio Scalfari, classe 1924, tra gli ultimi grandi giornalisti del secolo scorso ancora in attività, non usa mezzi termini nell’analizzare lo stato dell’arte del giornalismo in Italia. «L’abbassamento delle vendite dei quotidiani, e soprattutto dei periodici, non avviene solo nel nostro Paese, ma in tutto l’Occidente. Non credo che ciò dipenda dall’incapacità dei giornalisti, sarebbe infatti assai strano che in metà del pianeta tutti insieme fossero diventati incapaci». Il naturale cipiglio dei modi, accompagnato da un eloquio asciutto e forbito sono quelli di sempre, la disponibilità al dialogo anche. «La vera causa del calo è la concorrenza della televisione e di internet, è la società attuale che sta cambiando. Al giorno d’oggi, è sempre più evidente la rinuncia alla parola scritta, in favore di una comunicazione fondata principalmente sui suoni e sulle immagini».
Per alcuni, la causa dell’allontanamento dei lettori dalla carta stampata è dovuta anche all’abbandono, da parte di quest’ultima, di un modo di fare giornalismo “oggettivo”. «L’obiettività dei fatti è una finzione – afferma perentorio Scalfari –. Gli avvenimenti sono letti dai giornalisti secondo il loro punto di vista, ossia sulla base dell’interpretazione che loro ne danno». Non crede però che, così facendo, possa venire in qualche modo meno il rispetto e la tutela di chi legge? «Niente affatto, perché l’obiettività è cosa diversa rispetto ad un irraggiungibile distacco da ciò che si racconta. Essa consiste semplicemente nel rendere esplicito il punto di vista da cui ciascuno dei professionisti dell’informazione guarda gli avvenimenti. È solo questo quindi – sottolinea con forza – che va reso esplicito affinché i lettori possano decodificare le varie realtà dei giornali e dei giornalisti».
Una lettura dell’obiettività la sua, suffragata ancora di più dal notevole successo de “la Repubblica”, il quotidiano che fondò nel 1976 e che, per primo in Italia, ha cambiato il modo di fare informazione.
Non più soltanto cronaca, ma analisi e approfondimento secondo le diverse sensibilità di chi scrive. «Il futuro è ancora in quella formula. Non è certamente un caso se essa è stata adottata da tutti i giornali nazionali, sia nel nostro Paese che nel resto d’Europa». Da qualche anno a questa parte è sempre più diffuso il “Citizen Journalism”, ovvero un tipo di giornalismo detto anche partecipativo, che contempla un ruolo dei lettori sempre più attivo nella ricerca e nella divulgazione delle notizie. I suoi detrattori lo catalogano come fenomeno di costume, i suoi fautori come una risorsa indispensabile. «Il fenomeno cui lei fa riferimento si fonda interamente sulla comunicazione via Internet, con le varie forme dei social network, “Facebook”, “You Tube” e altre simili: non credo che sia semplicemente un fenomeno di costume, ma una realtà con cui tutti i giornali devono e dovranno confrontarsi»...continua
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